Tria: «Sulla manovra ci sono state divergenze. Controlleremo il deficit»
13/01/2019Ministro Tria, lei suggeriva al governo di puntare a un deficit 2019 al 1,9% del Pil. Si è preso degli improperi, i suoi collaboratori sono stati bersaglio di vari epiteti e poi alla fine siamo arrivati a un deficit giusto dello 0,14% sopra a quello che lei diceva. Si sente vendicato?
«A parte che io non ho ricevuto improperi…» (ride, ndr)
I suoi collaboratori sì però.
«Non per il bilancio. Non mi sento vendicato in nulla. Credo che alla fine il governo abbia saputo prendere le decisioni giuste nell’interesse dell’Italia. Le scelte non sono mai facili, perché vanno considerati molti fattori, politici e strettamente economici. A maggior ragione in una fase di forte rallentamento della congiuntura, in cui ci siamo trovati già in settembre e poi ancora di più in seguito. Se lei sul sentirsi vendicato si riferisce alla correzione della manovra che ci ha consentito di evitare la procedura per il debito, aggiungo qualcos’altro. Tra giugno e settembre e poi in seguito il quadro economico italiano ma anche europeo – il cambio del quadro italiano è la conseguenza di quello europeo – è mutato fortemente. Quando l’economia rallenta ci si pone sempre un dilemma: accentuare una politica espansiva, per far fronte al rallentamento dell’economia, anche se quando c’è minore crescita peggiorano i conti pubblici? Oppure bisogna porre più attenzione ai conti pubblici perché quando rallenta l’economia aumenta il deficit?».
Olivier Blanchard, l’ex capoeconomista del FMI, ha definito la vostra manovra “contractionary fiscal expansion”, un’espansione di bilancio che fa decrescere l’economia.
«Blanchard ha anche scritto un articolo molto interessante, che sto leggendo, che dice anche il contrario. Ciò che ha detto rispetto all’Italia, forse si chiarisce con ciò che sto per dire. In settembre c’è un rallentamento dell’economia, peggiorano i conti e quindi bisogna stare attenti. Ma è anche il momento di fare una politica fiscale espansiva, se vogliamo andare in senso anti-ciclico, di contrasto al rallentamento economico. Ora in settembre il deficit tendenziale, una volta eliminata la clausola Iva come chiesto dal parlamento in giugno, arrivava già quasi al 2% del Pil sul 2019. E prevalse la prima opinione, che si dovesse cercare di fare una politica di bilancio più costosa ma di sostegno alla domanda. Ovviamente lì c’era un problema riguardo a cosa si prevedeva che potesse accadere successivamente. Lì c’è stata anche una divergenza di opinioni (nel governo, ndr), però la discussone è stata in quest’ambito. Sapevamo che con un tendenziale dell’1,9% o al 2% non solo non c’era spazio per la grande spesa pubblica di cui si era parlato, ma non si poteva fase assolutamente nulla. Questo è un fatto oggettivo. È chiaro che io ero più dell’opinione che si dovesse mantenere un deficit più contenuto, anche se rispetto a impegni precedenti era sempre un po’ espansivo. Ma la decisione che prevalse allora fu frutto di previsioni differenti circa l’effetto del maggior deficit. Poi la situazione economica è peggiorata in Europa, è peggiorata in Italia, si è capito che c’era un forte rallentamento, successivamente abbiamo avuto i dati della Germania…».
Già, ma quanto di questa frenata è dovuta alle condizioni di stress di mercato che il governo aveva generato attorno all’Italia?
«Domanda interessante, perché nei dati che avevamo, si vedeva che la produzione industriale cominciava a fermarsi e andava male. Gli investimenti rallentavano, lo spread aumentava e c’era un problema di fiducia dei mercati. La manovra non era capita, lo spread saliva. C’era una crisi di sfiducia e quindi si rischiava che la manovra espansiva fosse in qualche modo sterilizzata; un po’ secondo quanto dice Blanchard. Non si poteva tenere quella posizione. In realtà però quello che abbiamo visto dai dati è che gran parte dell’arresto della produzione industriale era anche una conseguenza di quanto stava succedendo in Germania, con il fermarsi del mercato dell’auto. O in Francia. Gli indicatori della produzione industriale ci dicono che l’Italia non sta andando peggio della Germania o della Francia, dal punto di vista congiunturale».
L’Italia è in recessione?
«Aspettiamo di vedere i dati dell’ultimo trimestre. Non vedo una recessione, ma vedo una situazione di stagnazione».
È per questo che avete dovuto correggere la manovra?
«Il dialogo con la Commissione non si è mai interrotto. E teniamo conto che si è fatto un lavoro tecnico molto importante insieme alla Commissione stessa per raggiungere quel ‘non-peggioramento strutturale’ del saldo di bilancio, lo stesso obiettivo che avevo posto in giugno intervenendo in parlamento. Allora la Commissione chiedeva una correzione dello 0,6% del deficit strutturale».
Insomma, voi presentate la manovra a metà ottobre. Il 29 ottobre la Commissione la respinge. La ripresentate praticamente uguale il 13 novembre e il 21 novembre la Commissione scrive, formalmente, che non avete cambiato niente, «il criterio del debito non è rispettato» e una procedura «è giustificata». Evidentemente erano pronti a lanciare la procedura, come ha riconosciuto lo stesso premier Giuseppe Conte. Quand’è che avete cambiato posizione?
«Ci sono stati un dialogo e una riflessione continua e un controllo di come andava l’economia e di cosa dicevano i dati. Quando mandiamo una nuova bozza di bilancio con correzioni più che altro formali, è perché il dialogo continuava. Non ci eravamo alzati dal tavolo. Stavamo dentro le procedure europee. Poteva sembrare una presa in giro, ma non lo era, era concordato che noi rimanessimo al tavolo. Non si era ancora arrivati a decidere dove andare, ma almeno stavamo dentro la procedura».
Va bene, ma quand’è che i vicepremier Matteo Salvini e Di Maio hanno deciso di togliere 10,2 miliardi dal deficit 2019, mettere 18 miliardi di privatizzazioni, mettere 51 miliardi di clausole di salvaguardia sul 2020 e 2021, più due miliardi di clausole automatiche di tagli di spesa il prossimo luglio in caso di scostamento? Il 13 novembre Salvini, testuale, parlava ancora di «tirare diritto». Quando avete cambiato rotta?
«Adesso non ricordo le date, è stato un processo. Poi sono arrivati alcuni dati sul costo effettivo delle misure centrali del programma - reddito e quota 100 - che facevano vedere che servivano meno risorse rispetto alle stime iniziali. Però c’è stata una discussione continua, che ha portato alla decisione di continuare il dialogo. Poi a un certo punto ci si è posti l’obiettivo che bisognava in ogni caso evitare la procedura d’infrazione. Ci siamo messi al tavolo tecnico per trovare fino all’ultimo giorno tutto ciò che si poteva fare per rientrare nella regola e al tempo stesso non intaccare l’avvio, secondo quanto deciso, delle due principali misure del contratto di governo già dal 2019. È stato un lavoro complesso, non è che si è deciso tutto da un giorno all’altro. Tecnicamente ha contribuito anche il fatto che il peggioramento ormai chiaro in Europa e Italia della congiuntura ha portato a stimare di nuovo in modo diverso tutte le previsioni e il quadro di finanza pubblica. Si è aperto un problema di maggiore output gap, crescita minore rispetto al potenziale. Questo ha creato già una parte di spazio di flessibilità di bilancio che prima non c’era. E poi si sono studiate tutte le possibili combinazioni perché fosse riconosciuto dalla Commissione il diritto a investimenti di emergenza a titolo di flessibilità di bilancio, dati gli eventi in Italia sul ponte Morandi e sul dissesto idrogeologico. In luglio invece questa discussione era ancora impossibile, perché il governo precedente aveva usato tutta la flessibilità che veniva concessa per investimenti pubblici. La sostanza era che avevamo preso la decisione che non bisognava andare in procedura d’infrazione. Per un ulteriore motivo: quella crisi di sfiducia che si stava creando fra gli investitori non era affatto dovuta al famoso 2,4% sul deficit. Sul piano internazionale un deficit al 2,4% è completamente nell’ambito degli standard normali in una fase di rallentamento. Ciò che preoccupava era lo scontro con l’Europa, che veniva visto dai mercati come un segnale che il governo in qualche modo poteva andare verso l’exit dall’euro».
Il governo è arrivato a passare la manovra in extremis, di fatto esautorando il parlamento fra Natale e Capodanno. Non era meglio prendere la decisione che la procedura andasse evitata magari a inizio novembre, invece che in dicembre? Non sarebbe stato meglio anche per dare più tempo al normale processo democratico nel Paese?
«C’è un problema di maturazione delle scelte. Il processo decisionale politico richiede un’analisi della realtà che cambia e di ricerca degli strumenti più adatti. Ha richiesto tempo. Ma in fondo questo è un governo che è stato capace di avviare un processo di conoscenza della realtà, di come questa stava evolvendo, di prenderne atto, di cambiare posizione e adattare le proprie scelte. Se uno decide un’azione e poi si accorge che c’è un’eterogenesi dei fini – che la manovra fosse sbagliata o che non fosse capita – bisogna prendere atto della realtà. Non sempre questo accade».
Su Carige, quanto ha inciso lo spread sul fatto che siete dovuti intervenire?
«Non ha inciso minimamente. C’è stato solo, ma molto pesante, un problema di governance. La storia è nota, c’è stato un problema di nuove perdite che erano maturate dopo lo stress test della Bce. Il fondo interbancario di garanzia è intervenuto. Doveva portare a un aumento di capitale ma c’è stato quel problema di governance che ha portato poi al commissariamento. A questo punto è stato necessario un intervento di garanzia dello Stato, perché non si creasse un problema di fiducia nella banca, per garantire l’interesse dei risparmiatori. Da un punto di vista patrimoniale la banca è a posto».
Lei ha detto che non intende dimettersi, ma è molto evidente che a un certo punto lei ci abbia pensato, se le cose fossero andate nella direzione che lei non desiderava. C’è una lettera di dimissioni che resta scritta da qualche parte in un cassetto, per ogni evenienza?
«Non c’è mai stata una lettera di dimissioni e non c’è neppure nella mia testa. È chiaro che in futuro se il governo impazzisse… Anche Salvini si dimetterebbe se il governo decidesse di aprire le strade all’immigrazione (ride). Ovviamente c’è un limite. Un ministro dell’Economia non si dimette così, alla leggera, anche per senso anche di responsabilità. Alla fine si è dimostrato che il dialogo è sempre stato aperto e non c’è alcun motivo per immaginare mie dimissioni».
Nell’ultimo aggiornamento sul 2019 del quadro macro appena pubblicato dal Tesoro, c’è un aumento delle entrate di 0,3% del Pil: cinque miliardi di tasse in più. Un aumento di mezzo punto di Pil sui produttori, 8 miliardi di tasse in più. Ma non avevate detto che dovevate ridurle, le tasse?
«Invito a fare un confronto fra la pressione fiscale a legislazione vigente e quella programmatica dopo la legge di bilancio. E quest’ultima è diminuita».
Nel vostro documento c’è scritto il contrario: più pressione fiscale nel 2019 rispetto al 2018.
«Ma la legislazione vigente fino all’anno scorso comportava l’innesco di una clausola di salvaguardia di aumento dell’Iva di 12,5 miliardi. Come pressione fiscale complessiva rispetto all’anno precedente, si vede un piccolo aumento. È vero. Ma rispetto alla pressione fiscale che ci sarebbe stata nel 2019 se non fossimo intervenuti c’è una riduzione perché abbiamo disinnescato quei 12,5 miliardi di clausole Iva che altrimenti ora ci sarebbero stati. Non possiamo fare a meno di tenere conto di questo. Rispetto alla pressione fiscale senza manovra, che comprende l’aver trovato 12,5 miliardi per coprire quelle clausole disinnescate, abbiamo ridotto la pressione fiscale. E quando si va a vedere il bilancio, c’è un’altra questione: la maggior parte delle misure di riduzione della pressione fiscale sui produttori, per quanto limitate siano, hanno in gran parte un effetto zero nel 2019, perché sono nuove norme e hanno un effetto sostanziale – per esempio sugli utili reinvestiti e le altre – dall’anno successivo perché il bilancio riflette la cassa e non la competenza. Quindi si crea questo buco nel primo anno. Nell’arco del triennio è diverso, le tasse diminuiscono».
La manovra prevede: una forte diminuzione degli incentivi Industria 4.0; un taglio dei crediti d’imposta per Ricerca e sviluppo; quattro miliardi di tasse in più su banche e assicurazioni che poi si scaricano sui loro clienti, famiglie e imprese. Non sono aumenti di tasse sui produttori?
«Sì, però sono compensati da altre riduzioni, sempre sui produttori. Poi l’impatto sul sistema bancario, certo, questo pesa, ma sul conto economico delle banche non incide perché si presenterà solo come uno spostamento in avanti dei flussi di cassa. È chiaro che nei primi anni si vedono maggiori tasse. Ma semplicemente perché tutta una serie di detrazioni che spettavano alle banche vengono spostate in avanti e diluite. Quindi sul conto economico della singola impresa finanziaria tutto questo non ha inciso. È stata concordata con le banche un’operazione che le danneggiasse il meno possibile. Ma dovevamo arrivare al risultato di mantenere il ‘non-peggioramento strutturale’ del deficit e quindi da qualche parte bisognava agire».
Dall’inizio lei ha sempre detto che in Italia bisogna incoraggiare più investimenti. Ma nel vostro aggiornamento del quadro macro rispetto al 2017 e 2018 prevedete un dimezzamento del tasso di crescita degli investimenti totali nei prossimi anni e anche un calo rispetto ai vostri stessi programmi di pochi mesi fa. Questo per tutto il prossimo triennio. «Lì si parla degli investimenti complessivi, pubblici e privati. È chiaro che è il risultato della nuova fase di rallentamento dell’economia e della produzione industriale».
Anche a tre anni?
«A tre anni non sappiamo. Spero che le previsioni di bassa crescita del secondo e terzo anno non siano corrette. Le previsioni non rappresentano i desideri del governo, ma un quadro di riferimento per le previsioni dei conti pubblici che dev’essere prudenziale perché dev’essere accettato dalla Commissione; l’ultimo è stato anche accettato dall’Ufficio parlamentare di bilancio per il quadro di finanza pubblica. È chiaro che nel momento in cui noi abbiamo un rallentamento forte nel 2018, entriamo nel 2019 con investimenti più bassi. Io spero ci sia una ripresa nell’arco del 2019 e negli anni successivi. Ma non ci sono indicatori che ci permettano automaticamente di farcelo mettere nero su bianco. In verità nel quadro tendenziale, cioè in assenza di manovra, gli investimenti erano previsti ancora più bassi. Io avevo parlato del rilancio degli investimenti pubblici. L’idea è che questi avessero un trascinamento degli investimenti privati, aumentandone il rendimento. È su questo che noi dobbiamo continuare a operare. Il rilancio degli investimenti resta il punto centrale della strategia di politica economica, anche se non se n’è più parlato tanto perché l’attenzione si è concentrata sul cambiamento della manovra in termini di deficit».
Restano 23 miliardi di clausole di aumento su Iva e accise sull’anno prossimo e 51 in tutto nei prossimi due anni. Di Maio ha licenziato la manovra con queste clausole ma subito dopo ha detto che questi aumenti non si faranno. Intanto, senza clausole il deficit esplode ben oltre il 3% l’anno prossimo. Non è che alla fine, come sempre, si taglieranno gli investimenti per far tornare i conti, di fronte a questo enorme muro di Iva da superare?
«Questo è un problema che abbiamo in parte ereditato. Quest’anno siamo riusciti a disinnescare le clausole ereditate».
Però le avete nettamente aumentate per i prossimi anni.
«Sì, ma intanto quest’anno siamo riusciti a toglierle e a raggiungere un deficit contenuto, che ci ha consentito di evitare questa procedura d’infrazione che in realtà doveva scattare a maggio sul debito accumulato e fu evitata dal precedente governo con un’azione che ha scaricato sul 2019 ben 12,5 miliardi di clausole Iva, che poi arrivavano a 20 miliardi negli anni successivi. Noi a un certo punto non avevamo spazio di bilancio e abbiamo anche aumentato quelle clausole. Dunque dovremo affrontare il problema con una maggiore crescita. Quest’anno siamo riusciti a far partire sia le misure di spesa, sia a eliminare le clausole con un’azione di ripulitura del bilancio e di tagli. È un problema che spero di riuscire a affrontare anche negli anni prossimi. Quindi non è che si dice questa misura si tocca o non si tocca: si affronta la realtà. Siamo riusciti a farlo quest’anno, vedremo il prossimo. Ma non lo faremo tagliando gli investimenti, perché neppure quest’anno abbiamo fatto così».
Intanto avete tagliato sul 2019 ben 600 milioni di trasferimenti alle Ferrovie dello Stato…
«Se lei vede non solo il totale in conto capitale ma la voce degli investimenti pubblici della pubblica amministrazione, questi aumentano. Gli investimenti pubblici sono leggermente più bassi di circa 700 milioni rispetto a quelli della prima versione della bozza di manovra di bilancio, perché una delle operazioni concordate con la Commissione è quella di finanziare certi investimenti con fondi strutturali».
Anche quelli vanno cofinanziati, no?
«Ma per quello i fondi ci sono. Il problema è che se non ci sono i progetti, non si riesce a farli partire. Per quanto riguarda gli altri trasferimenti in conto capitale, cioè per investimenti, è stata un’operazione in gran parte sulle Ferrovie dello Stato per le quali il trasferimento è stato solo spostato in avanti».
Rinviato?
«Rinviato. La stessa cifra resta, ma viene spalmata. Questo non tocca nessuno dei programmi in corso, perché per questi i fondi ci sono. Né incide dal punto di vista macro. Un’altra operazione poi è stata fatta con i trasferimenti del fondo di coesione, perché lì esiste una cassa enorme. Aggiungo anche che c’è una massa di residui di fondi per investimenti stanziati negli anni precedenti e non spesi, che permettono di fare molto. Mi augurerei di arrivare a un punto in cui ci sia davvero bisogno di trovare risorse aggiuntive per investimenti. Allora faremmo veramente decollare l’economia. Per ora dobbiamo preoccuparci di avere progetti e autorizzazioni. I fondi oggi ci sono».
Gli aumenti di spesa pubblica in bilancio sono legati a quota 100 e al reddito di cittadinanza, ma non c’è un vero aumento di spesa legato agli investimenti.
«Alla voce investimenti fissi lordi, sì».
Di quanto rispetto al 2018?
«Circa tre miliardi per dissesto idrogeologico e altri interventi. Ma molto dipende dalla nostra capacità di intervenire rapidamente sulla capacità tecnica e normativa di spesa, per sbloccare i progetti e le autorizzazioni. Il problema principale non è certo la carenza dei fondi».
Dunque la spesa pubblica sale per reddito, pensioni e investimenti. Ma interventi per tagliare altre voci di spesa pubblica? Lei non ha nominato un nuovo responsabile della spending review…
«Non c’è il commissario alla spending review ma c’è la norma sugli obiettivi di spending per ogni ministero. Che ha agito anche nel contenimento della spesa nel bilancio appena approvato. Non ho rinominato un commissario, perché non ho mai creduto ai commissari. La spending va fatta con le strutture, mettendole in moto. Non mi pare che i commissari abbiano dato questi grandi risultati. O c’è il consenso politico, o allora non si fa niente».
La crescita nel 2019 sarà molto bassa: sia reale sia stimando anche l’inflazione. Lei stesso dice che l’Italia è in stagnazione. In più, i debiti commerciali dello Stato diventeranno debiti finanziari perché Cassa depositi anticiperà i soldi alle imprese per conto del governo. Può garantire che nel 2019 il debito pubblico in rapporto al Pil scenda?
«Garantire è difficile. Ma posso affermare che il debito scenderà, perché è l’impegno del governo. Certo il calo del prezzo del petrolio può deprimere l’inflazione, ma avrà un effetto positivo sulla crescita. Questa poi dipenderà molto dalla politica monetaria e dalla congiuntura internazionale. Spesso l’effetto dell’azione di governo è molto limitata sulla crescita. Teniamo presente anche che sembra vedersi, nella politica della Fed e di altre banche centrali, una maggiore cautela».
Quanto al deficit: teme che una revisione al ribasso della crescita del Pil nel 2019 possa far emergere un disavanzo più alto del 2,04%?
«Il disavanzo verrà tenuto in ogni caso sotto controllo con una attenta azione di monitoraggio che è stata prevista e rafforzata con norme specifiche».
Da come ne parla, dà l’impressione che la stagnazione sia data da fattori esogeni, esterni all’Italia. Eppure noi abbiamo iniziato a frenare molto prima degli altri Paesi.
«Dal primo giorno ho fatto notare che noi siamo sempre l’1% di crescita del Pil sotto le medie europee, e questo dipende dall’Italia. Per tanti fattori. Io credo che abbiamo necessità di maggiori investimenti sia privati che pubblici, che spesso sono molto più bassi che in passato in tutti i paesi avanzati. Oggi con la globalizzazione e questa velocità di disruption tecnologica e i grandi oligopoli tecnologici, esiste un disincentivo agli investimenti privati per i quali manca la fiducia nel rendimento futuro. La globalizzazione ha tirato la crescita in passato, ma l’attuale tipo di globalizzazione porta a un aumento dell’incertezza e a un aumento del rischio d’investimento in innovazione. Schumpeter parlava della distruzione creatrice. Però bisogna vedere dove si distrugge e dove si crea. In questa fase il progresso tecnologico e la sua diffusione sono così rapidi che il rischio dell’innovatore è molto più alto. Questo porta a una polarizzazione e all’emergere di giganti dell’economia. Dunque esiste un nuovo ruolo dell’investimento pubblico per compensare gli squilibri e garantire beni pubblici».
Prevedete 18 miliardi di privatizzazioni su un solo anno, un exploit quasi mai visto in passato. Volete trasferire le partecipazioni del Tesoro dentro Cdp? Eurostat vi permette un’operazione puramente contabile?
«Stiamo studiando la questione».
Insomma: ci sono 51 miliardi di clausole Iva, c’è incertezza sulle privatizzazioni, sul debito… Alla fine quello dell’Italia con la Commissione è un problema risolto o un problema rinviato?
«Prima si dava per scontata l’apertura della procedura. Poi si dava per scontato che il problema non era risolto. Io dico che, per ora, è risolto. Ovviamente in futuro il problema è quello del debito e della crescita con la quale si aggiusta l’economia. Quando ci sia avvia per questa strada, bisogna sapere che il problema non è mai risolto. Non lo è per l’Italia, non lo è per la Francia e per i vari Paesi».
È un problema di regole europee?
«Io mi auguro anche che in futuro le regole possano essere cambiate. Non per permetterci di fare finanza allegra, ma perché credo che il Fiscal Compact sia sbagliato».
Perché sbagliato?
«È stato approvato in un momento molto particolare. Sono regole rigide che non permettono di affrontare bene il ciclo economico. Credo che le regole debbano essere cambiate nell’interesse sia della crescita, sia della stabilità finanziaria e sociale».
Cambiate in che direzione? Per togliere gli investimenti dal calcolo del deficit?
«Sicuramente questo sarebbe da fare. È chiaro che ci debba essere una regola di bilancio, non è che possiamo lavorare senza regole comuni. Ma questa sugli investimenti è un’operazione che andrebbe fatta perché sta in tutte le regole dell’economia».
Sui centri per l’impiego la riforma e il rafforzamento devono ancora partire. Sull’Isee sul 2019 siamo ancora indietro, perché mancano i finanziamenti per l’Inps. Ma ce la fate a partire dal primo aprile con il reddito di cittadinanza?
«Questo è il programma».
A chi è venuto in mente di tassare il volontariato? Com’è nata questa idea, sulla quale per fortuna state tornando indietro?
«Diciamo che non è chiaro (ride, ndr). In un complesso negoziato, nella fase finale avevamo elenchi di tutti i possibili provvedimenti e c’è stato un errore. Anche se bisogna riconoscere che il tema è complesso. Non è che proprio non bisogna metterci mano, perché esiste anche molta concorrenza sleale in quest’area. Però in ogni caso questo è stato un errore».
Lei rivendica che gli azionisti politici del governo abbiano dimostrato capacità di evolvere di fronte agli eventi e ai dati. C’è un’ulteriore loro evoluzione che lei auspica nel 2019? Per esempio in Italia si parla del bilancio come fosse solo una fonte di regali per gli elettori. Ma alla fine qualche sacrificio da qualche parte dovrà pur esserci, no?
«Credo che non sia questione di capacità di evolvere, che è stata dimostrata. Questo non è facile, perché richiede capacità di analisi e di anticipare quanto possibile gli eventi per non arrivare in ritardo. Si tratta di avere conoscenza e saper scegliere le risposte. In democrazia è anche necessario spiegare e ottenere il consenso. E non parlo solo di consenso elettorale, perché si tratta di ottenere un consenso che implichi fiducia e quindi possa avere effetti sui comportamenti che poi sono determinanti in economia. Qualunque governo deve avere capacità di evolvere. Certo, questo governo è partito da un contratto, come altri governi partono da un programma. Poi il mondo cambia e uno deve affrontare il mondo che cambia: non solo quello che ha detto nel programma elettorale. Se il mondo è cambiato uno deve farvi fronte».
Ministro, c’è qualcosa nel suo ruolo che non la fa dormire la notte?
«La disoccupazione. Non è tollerabile che un governo nella sua proiezione programmatica veda che il tasso di disoccupazione è ancora superiore al 10%. Questo non siamo ancora riusciti a cambiarlo. Questo è il tema, che significa rafforzare la crescita e rilanciare gli investimenti».
La disoccupazione lei la vede ancora sopra il 10% a un anno o a tre anni?
«Spero che la disoccupazione scenda sotto il 10% a breve, benché ci sia un problema di misurazione. Quando partirà il reddito di cittadinanza e una massa di inattivi si andrà a iscrivere nelle liste di coloro che cercano lavoro, per avere accesso al reddito, noi avremo un impatto sulle forze di lavoro e un aumento statistico della disoccupazione. Per cui magari saremo anche accusati di aver fatto crescere la disoccupazione, prima che queste persone vengano riassorbite nel mercato del lavoro».
Questo vuol dire che ci sono tanti disoccupati che non compaiono nelle statistiche, no?
«Non solo. Quando si è detto che il tasso di occupazione era migliorato e eravamo tornati agli anni prima della crisi su questo indicatore - mentre sul Pil no - basta andare a vedere le ore lavorate: il numero di ore lavorate è ancora molto inferiore al 2008».
Il reddito di cittadinanza lei lo rivendica un po’ poco come misura utile all’economia…
«Be’, risponde a un problema di stabilità sociale. Basta vedere cosa succede in Francia. Ora bisognerà capire se si riesce ad applicarlo così come viene detto perché poi è un sistema molto articolato e complesso. C’è tutta una componente, maggiore di quanto era stato previsto, di incentivo alle imprese per l’assunzione. Lì bisogna vedere se l’incentivo come è stato progettato funziona in direzione corretta. L’altra parte importante riguarda la formazione: quanto di questa spesa va in quella direzione? Quella è una situazione complessa e potrebbe avere un effetto positivo, ma anche questa misura è un po’ sfortunata, come spesso accade».
Perché sfortunata?
«In una situazione congiunturale debole per l’economia, non è il momento più facile per avere tante offerte di lavoro. Anche il Jobs Act da solo non ha funzionato, perché eravamo in recessione».