Padoan: “L'Italia crescerà ancora”
07/01/2018Intervista a Pier Carlo Padoan di Aldo Cazzullo
Professor Padoan, lei è ministro dell’Economia da 4 anni. Quale bilancio fa?
«Semplice: il Paese sta meglio rispetto all’inizio della legislatura. Tutti gli indici sono migliorati: crescita, lavoro, finanza pubblica, occupazione — siamo ai livelli massimi di occupati — stato di fiducia».
Sullo stato di fiducia non direi. Il sentimento prevalente nel Paese pare ancora la sfiducia.
«Non ho detto che l’indice sia ai massimi; dico che è cresciuto. Tutto questo deve essere uno sprone a continuare. C’è un’agenda di riforme da implementare, da introdurre, da valutare».
Cresciamo meno di altri Paesi, e abbiamo più terreno da recuperare.
«Sono d’accordo, soprattutto se si considerano le differenze geografiche e fra gli strati sociali. Ci sono ancora moltissimi elementi di sofferenza. Dobbiamo combattere la povertà, aumentare l’inclusione, restringere il divario tra le regioni. C’è un’enorme quantità di cose da fare: i bisogni della gente devono ancora essere soddisfatti. Finché le riforme non vengono implementate, non incidono sulla vita dei cittadini, che non percepiscono i miglioramenti».
A quali riforme si riferisce?
«Tante. Scuola, pubblica amministrazione, giustizia. Ma la riforma fondamentale è l’occupazione».
Con il Jobs act si sono creati soprattutto posti precari.
«Se le imprese sembrano preferire lavoro a tempo determinato, non vuol dire che il Jobs act sia sbagliato; vuol dire che va corretto, ad esempio ridisegnando gli incentivi che si sono esauriti. Il Jobs act ha avuto un enorme ruolo positivo, lo vedremo quando l’economia sarà stabilmente in espansione. Serve a rompere la separazione fra garantiti e non garantiti: un’ingiustizia verso i giovani».
Appunto: quando l’economia sarà stabilmente in espansione?
«Oggi non cresciamo ancora abbastanza velocemente ma — e qui faccio una mia personale previsione — la velocità di crociera aumenterà. Nella ripresa ci sono elementi strutturali: le imprese stanno investendo per innovare, per rinnovare lo stock di capitale, per assumere capitale umano; e questo fa crescere il reddito potenziale, come per due decenni non è avvenuto. Stiamo risolvendo il doppio problema: l’uscita dalla crisi finanziaria e bancaria, e dalla crisi di crescita, eredità di fine millennio».
I conti pubblici sono in sicurezza?
«L’Italia è sul sentiero giusto. L’Istat ha appena certificato per il terzo trimestre 2017 un deficit al 2,1% del Pil, in linea con le previsioni. Faccio notare che in questi anni la finanza pubblica italiana ha ottenuto risultati in piena coerenza con le previsioni; nelle passate legislature, la maggior parte delle volte si sforava. Ora la barra è stata tenuta dritta, secondo gli obiettivi concordati con l’Europa».
Ma il debito pubblico continua a crescere.
«Non è così. Il debito pubblico in rapporto al Pil ha registrato una flessione già nel 2015 e ora è stabilizzato. Per il 2017 stiamo aspettando i dati definitivi: c’è una buona probabilità che anche quest’anno il debito diminuisca. Abbiamo lasciato la sciovia e cominciato la discesa».
Si diceva un tempo che in Europa andavamo con il cappello in mano. La politica renziana dei pugni sul tavolo ha pagato di più?
«In Europa vige un principio semplice: nei negoziati i Paesi ottengono risultati direttamente proporzionali alla loro capacità di rispettare le regole ed essere riconosciuti come Paesi che rispettano le regole. L’Italia ha dimostrato di sapere fare le riforme strutturali, mantenendo una politica di saldo della finanza pubblica non ballerina ma costante. Poi ci sono i rapporti tra leader. Renzi è stato molto efficace nell’affermare che l’Italia è un Paese credibile, anche perché l’Italia ha dimostrato di esserlo. Il suo battere i pugni sul tavolo era sostenuto dalla credibilità».
Com’è Schäuble? Odia l’Italia?
«Assolutamente no. Abbiamo un rapporto personale stretto, anche se spesso non ci troviamo d’accordo. Il fatto paradossale è che molti esponenti stranieri, in primo luogo tedeschi, adorano l’Italia, comprano casa da noi, parlano anche un po’ di italiano. Compreso il governatore della Bundesbank Weidmann».
Neppure Weidmann è cattivo?
«Non dico sia buono... Ma dopo aver pronunciato all’ambasciata tedesca parole che potevano suonare offensive verso l’Italia, come riparazione mi invitò a tenere una conferenza a Francoforte introducendomi in un modo che mi ha commosso».
La Merkel riuscirà a fare il governo?
«Mi pare che la prospettiva della Grande Coalizione si stia indebolendo. Non resterebbero che nuove elezioni».
Ai tavoli economici europei c’era anche Macron.
«Con Macron abbiamo avuto rapporti dialettici, franchi, diretti. Dai cantieri navali alla gestione di ST-Microelectronics».
D’Alema parla di atteggiamento coloniale da parte della Francia.
«Non lo commento. C’è un atteggiamento di due Paesi industriali, uno — l’Italia — più industriale dell’altro, che collaborano e competono. La Francia è venuta in Italia forte di una situazione finanziaria più robusta e ne ha approfittato; ma l’Italia sa fare il contrario. Fincantieri è la compagnia che gestirà la nuova realtà cantieristica franco-italiana sia civile sia militare. Non so se D’Alema pensa che questo denoti un atteggiamento coloniale dell’Italia verso la Francia».
D’Alema, cui lei fu vicino, le riserva spesso qualche stoccata.
«Conosco bene le stoccatine di D’Alema, è un genere che lo appassiona. Anch’io avrei in mente qualche stoccatina per lui, ma mi astengo. Gli sono molto affezionato. E non dimentico che una delle persone che mi telefonò per convincermi ad accettare questo incarico fu lui. Non so se si è pentito».
E il rapporto con Renzi com’è stato?
«Molto interessante, faticoso, stimolante. Sempre dialettico. In alcuni casi il governo prese decisioni che io avrei preso in modo diverso».
Ad esempio?
«Io avrei tagliato prima le tasse alle imprese, in modo che assumessero. Ma Renzi disse: no, siamo in una fase recessiva, dobbiamo sostenere le famiglie; e impose gli 80 euro. Devo riconoscere che aveva ragione lui. Eravamo in disaccordo sul rapporto deficit-Pil: lui voleva lasciarlo invariato, io volevo diminuirlo; e quella volta prevalse la mia posizione. Su quasi tutto abbiamo avuto una discussione molto franca».
Insomma, non eravate d’accordo su niente.
«Eravamo d’accordo su una cosa fondamentale: la strategia di fare le riforme. Il principale merito del presidente Renzi è stato dare una scossa all’Italia».
Meglio lui o Gentiloni?
«Sono due persone molto diverse. Renzi ha dato molto al Paese, Gentiloni sta dando molto in condizioni differenti. Per quanto possa essere malignamente interpretato, mi trovo bene con tutti e due. Del resto ho avuto esperienza con capi impegnativi. All’Ocse avevo Gurría, un vulcanoide. Al Fondo monetario il mio capo era Tremonti; e ho detto tutto».
Si candiderà alle elezioni del 4 marzo?
«Al mio futuro non ho pensato. Nessuno me l’ha chiesto, e io non chiedo nulla».
Se glielo chiedessero?
«Non lo escluderei. Si può servire il proprio Paese in vari modi. Anche dall’estero, come ho fatto per 12 anni. L’importante è continuare a dare il mio contributo perché l’Italia prosegua nel percorso di riforme, crescita, risanamento».
Come andranno le elezioni?
«Mi pare che nessuno dei tre blocchi avrà la maggioranza per governare da solo».
È possibile un governo Pd-Forza Italia?
«In un quadro di elevata incertezza non si può escludere nulla. Mi sembra che questa incertezza diffusa sia già percepita, vedo un certo nervosismo sui mercati finanziari: con lo scioglimento delle Camere si è mosso lo spread, che era sceso a numeri molto contenuti».
L’Italia può reggere mesi senza un governo con una maggioranza parlamentare?
«L’Italia potrebbe reggere mesi e mesi in cui i partiti negoziano fra loro, se l’attività di governo continua nella sua normalità: non solo l’ordinaria amministrazione, ma tutto quello che può servire a continuare il percorso virtuoso. Gentiloni ha detto una cosa molto importante: il governo governa. In queste condizioni i partiti avranno il tempo per accordarsi; come accade in Germania e in Olanda, per non parlare della Spagna. Potrebbe essere una sorta di nuova normalità europea».
Berlusconi e la Lega propongono la flat tax. Lei che ne pensa?
«La questione cruciale è il livello: c’è una bella differenza tra — per esempio — il 15 e il 25%. La Lega propone un numero insostenibile, Berlusconi un numero meno insostenibile. Una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei. Ma c’è un problema di regressività: bisogna evitare che i benefici cadano in modo disproporzionale sulle fasce di reddito più elevate. E c’è un problema di equilibrio di finanza pubblica».
È favorevole all’eliminazione del canone Rai?
«Il problema non va posto come canone sì o canone no. Bisogna avere un progetto di lungo termine, con una idea di cultura e di servizio pubblico. Il modello di finanziamento dipende dal progetto culturale, non il contrario».
La legislatura è stata segnata anche dalla crisi delle banche.
«E noi l’abbiamo affrontata sia con riforme strutturali, sia con operazioni di gestione delle crisi in un contesto istituzionale e finanziario difficilissimo, con l’Europa che ha cambiato regole in modo che dire accelerato è poco. Eppure abbiamo tolto di mezzo i focolai di crisi. Abbiamo salvato i risparmiatori e rimborsato gli obbligazionisti. Ci hanno perso solo gli azionisti e qualche investitore istituzionale. E il Wall Street Journal scrive che le banche italiane non sono più un problema».
Allora perché l’opinione pubblica è furibonda? Forse per l’uso del denaro pubblico?
«Non dico sia tutto risolto. Ma in Italia la crisi ha interessato sette banche su 600: il Monte dei Paschi, le due venete, quattro piccole banche regionali. Il ricorso al denaro pubblico è stato infinitamente minore che in altri Paesi europei, con la Germania il rapporto è di uno a venti. Come ha detto Visco, la crisi bancaria è legata alla recessione: i debitori non pagano i debiti, le banche si tengono le sofferenze in pancia. Si poteva fare di più, le banche potevano accelerare le cessioni delle sofferenze, le autorità potevano convincerle ad accelerare la dismissione. Unicredit ha ceduto sofferenze a un prezzo non fantastico, ma questo le ha permesso di ricapitalizzarsi per 13 miliardi; a dimostrazione che nel sistema bancario italiano c’è vitalità».
Chi ha messo in crisi sette banche?
«Di sicuro ci sono stati comportamenti fraudolenti da parte di amministratori che sapevano e hanno taciuto o hanno mentito. Questo ha generato uno choc violento per i risparmiatori».
Visco è stato un buon governatore?
«Lo è stato e lo è».
Lei alla commissione parlamentare ha detto di non aver autorizzato nessun ministro a occuparsi di banche. Ora la Boschi dovrebbe dimettersi?
«Non intendevo assolutamente questo. In realtà volevo dire una cosa banale: il problema di autorizzazione semplicemente non si pone, non è che dovessi autorizzare alcuno. Si parla solo della Boschi, ma la commissione sta facendo un lavoro utile. Spero che metta tutte le informazioni a disposizione del Paese».
E dei 5 Stelle cosa pensa?
«Ho letto la lunga intervista di Di Maio al Mattino. Vedo il tentativo di appropriarsi di tante proposte in tante direzioni, una in contrasto con l’altra. E vedo la totale assenza di coperture finanziarie. Non basta dire solo che si tagliano le spese, bisogna indicare quali. E l’idea di portare il deficit oltre il 3% promette solo di scaricare nuovo debito sulle prossime generazioni».
Sul taglio delle spese potevate fare di più?
«La spending review è un’operazione da fare in modo continuo, con un orizzonte di medio termine, che non dà risparmi cospicui. Certo, si può tagliare qualsiasi spesa, sanità pensioni, scuola, difesa; però poi non lamentiamoci se lo Stato non produce più servizi essenziali».