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Intervento del ministro Tria al Forum economico italo-francese

01/03/2019

Questo è il testo dell’intervento del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, reso a Versailles in occasione del II Forum economico Italia-Francia.

Presidente Roux de Bézieux,
Presidente Boccia,
Caro Ministro LeMaire, cher Bruno,
Signore e Signori,
è con estremo piacere che intervengo a questo importante incontro tra le associazioni industriali francesi ed italiane.

Sono sempre stato convinto che lo scambio, il dialogo e il confronto siano strumenti imprescindibili del nostro stare insieme nell’Unione Europea. Imprescindibili perché aiutano a valorizzare ciò che ci rende più competitivi e a rendere gestibile ciò che è invece potenzialmente divisivo, come è normale che sia in una comunità di nazioni. Certamente possiamo non essere sempre d’accordo, ma il dialogo rimane una parte essenziale, un modus operandi che deve sempre prevalere.

Sono venuto a Parigi qualche mese fa, a fine ottobre. L’occasione era l’incontro annuale dell’Associazione francese degli assicuratori, ed ebbi il piacere di parlare insieme al mio amico Bruno. Come accade nuovamente oggi.

Il mio messaggio allora era che non possiamo più pensare ad una Europa che si guarda solo dentro, che si focalizza solo sulla sua architettura istituzionale e regolamentare. E’ una ricetta che non funziona più, da tempo, e spiega la diffusa insoddisfazione di molti cittadini verso un’Europa che non sembra quasi più in grado di fornire i beni pubblici – sicurezza, lavoro, benessere – che da essa si aspettano.

E’ giunto dunque il tempo, a mio parere, di tornare alle origini, di tornare a pensare al perché stiamo insieme, e magari di dare a questo perché un nuovo impulso per consentire all’Unione Europea di stare al passo con il resto del mondo.

Cosa è cambiato da questo incontro di ottobre a Parigi?

In questi pochi mesi il forte rallentamento dell’economia, non solo in Italia ma in tutta Europa, ha evidenziato la necessità di rilanciare un progetto Europeo che risponda alle sfide della globalizzazione.

La riflessione su come la Globalizzazione contemporanea ci spinge a rivedere la nostra strategia e le nostre priorità si sta arricchendo, come testimoniano proprio i lavori di questi due giorni fra le rappresentanze industriali italiane e francesi. Vediamo anche altri contributi importanti emergere sia dagli Stati Membri, sia da alti rappresentanti delle Istituzioni europee.

Penso che siano tutti passi nella direzione giusta di una Europa che voglia rispondere in modo efficace alle sfide globali.

Ma andiamo più a fondo nel cuore delle sfide.

La prima sfida è comprendere appieno ciò che sta accadendo con la Globalizzazione. Ho apprezzato molto la scelta delle parole chiavi nella dichiarazione congiunta MEDEF/Confindustria: Pace, Protezione, Crescita.

Per me sono tre parole che fanno parte di un unico ragionamento e vorrei utilizzarle come filo conduttore del mio intervento.

La pace, innanzitutto. La Storia ci insegna che importanti mutazioni globali come quelle cui stiamo assistendo sono fisiologiche, e sono destinate a crescere perché sono il frutto del progresso tecnologico e dell’intensificazione delle reti di trasporto e di comunicazione, più che di un disegno politico.

Ma la storia ci insegna anche che i nuovi equilibri di potere vengono raggiunti spesso in contesti di conflitto e di guerra, e che ad una spinta di globalizzazione non governata risponde una spinta di chiusura, molto aggressiva. La nostra missione principale in quanto europei è di impedire che questo accada: far prevalere la competizione sul conflitto, sempre. Per riuscire, occorre un’Europa forte, un’Europa autorevole. Soprattutto, un’Europa coesa.

E’ un fatto che i singoli paesi, anche i più solidi, non riescono più, con le loro politiche economiche o fiscali, ad affrontare i grandi cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico, privi come sono degli strumenti per correggere il tiro. I cittadini subiscono gli effetti della globalizzazione perché le politiche nazionali non sono più in grado di offrire loro adeguata protezione.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che mentre il trasferimento di poteri verso il livello sovra nazionale, in questo caso l’Unione Europea, mirava al recupero di questa capacità di intervento, la risposta Europea finora è stata incompleta. L’anomalia di una politica monetaria comune e di politiche fiscali nazionali va, prima o poi, superata. Nel processo di costruzione Europeo abbiamo troppo spesso lasciato le cose “a metà” e quasi senza accorgercene siamo passati da una logica di obiettivo ad una logica di adempimento alle regole.

Questa analisi, mi sembra, la condividete anche voi del mondo industriale quando chiedete di invertire la logica che ha prevalso in Europa e di affiancare la crescita alla stabilità. Su questo punto il mio impegno va nella stessa direzione, in particolare per quanto riguarda il rilancio degli investimenti pubblici e privati.

Una delle conseguenze indesiderate della Globalizzazione contemporanea è proprio il calo degli investimenti, in parte dovuto alla crescente componente di rischio in un contesto di instabilità, ed in parte dovuto al fatto che l’impatto delle nuove tecnologie sulla crescita sta rallentando, mentre le conseguenze socio-economiche delle trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie sono in aumento.

Su questo punto, le proposte avanzate da vari paesi, tra cui la Francia e la Germania, per lo sviluppo di una strategia di investimenti a livello UE incentrata su innovazione e tecnologie sono una base di partenza importante. L’obiettivo è quello di riappropriarsi di una sovranità tecnologica che ci rilanci come protagonisti a livello mondiale. Queste proposte sono un passo necessario, ma non sufficiente.

Necessario, perché danno un senso chiaro alla nostra cooperazione e riconoscono l’elevato tasso di interdipendenza tra le nostre filiere produttive. Se da un lato produciamo insieme, ma dall’altro non ci assumiamo una parte del rischio di innovazione, non saremo competitivi a lungo termine.

Non sufficiente perché questa risposta coordinata guarda solo ai vincenti della competizione globale e lascia ai singoli stati l’onere di gestire i perdenti temporanei, vincolando, oltretutto, questo onere alle regole fiscali, innescando in tal modo spirali recessive che non giovano a nessuno.

Torno dunque al concetto di protezione e voglio sottolineare che qui non si tratta solo di perdenti sul territorio nazionale, ma dei perdenti in generale, compresi coloro che sono costretti a migrare in condizioni disumane. Non a caso avete individuato nei vostri lavori lo sviluppo dell’Africa come una delle sfide principali dell’Unione Europea.

Allo stesso modo, le riflessioni su un bilancio comune della zona euro hanno lo stesso limite. Se guardiamo all’interdipendenza delle nostre economie, e al contempo al bisogno di competere a livello globale puntando su innovazione e nuove tecnologie, non possiamo pensare che la parte di rischio nella politica fiscale venga assunta solo a livello nazionale.

Questo non significa che non ci debbano essere condizioni e regole comuni, ma significa che senza una rete di sicurezza comune qualsiasi politica di bilancio comune nella zona euro nasce monca. E se c’è una cosa che la costruzione europea ci insegna negli ultimi decenni è che le cose lasciate a metà non funzionano a lungo andare, anzi peggiorano la situazione.

A questo proposito, il metodo comunitario, che diverse volte è stato invocato in questa sede, e che sicuramente ha portato innumerevoli benefici, ha dimostrato negli ultimi anni dei limiti che dobbiamo superare.

Sicuramente anche i dialoghi imperfetti sono da preferire ai conflitti. Purtroppo, e il mio collega e amico Bruno (LeMaire) ne converrà, a volte questo dialogo si riduce a trovare il minimo denominatore possibile senza rispondere alle grandi sfide. Se vogliamo dare più forza all’Europa per essere competitivi a livello globale, dobbiamo anche rinnovare il metodo di dialogo e di condivisione delle soluzioni che stiamo utilizzando.

Progetti comuni ed impulsi coordinati che abbiano effetti nell’economia reale devono diventare il modo prevalente di agire in Europa e non un sottoprodotto o una mera iniziativa. Dobbiamo passare più tempo a decidere cosa fare insieme e meno tempo a discutere su cosa deve fare il vicino.

Una seconda caratteristica del metodo comunitario come viene interpretato oggi è quello di concentrarsi sul domani, sul breve termine, incoraggiato in questo senso dalla ricerca in primis della stabilità finanziaria, ma anche da una sempre meno chiara definizione dell’interesse generale comunitario.

L’Europa non si deve solo preoccupare dei vincenti e perdenti di domani, ma anche di che cosa sarà fatto dopo domani. Come voi stessi sottolineate, dopodomani, non sarà più questione di dire “Designed in Europe, made in China”. Questo modello sarà superato.

Dopodomani, chi viene formato oggi secondo questo modello semplicemente non avrà le competenze per trovare un lavoro. Dopo domani, se l’Europa non avrà una sovranità tecnologica diverrà semplicemente un mercato che le altre aree del globo si contenderanno. Diventeremo periferici.

Per evitare questo, dobbiamo fare due salti concettuali e conseguentemente ridisegnare gli interventi di politica economica. Il primo è di ampliare ciò che intendiamo per infrastrutture per poter sviluppare una strategia di investimenti capace di portare risultati.

Prima di tutto, infrastruttura significa non sono solo ponti e gallerie, ma tutte le condizioni necessarie per produrre innovazione. Questo include la conoscenza, la tecnologia, la produzione.

Poi, infrastruttura significa connettività. La connettività è l’elemento cruciale della globalizzazione contemporanea. E’ ciò che maggiormente la caratterizza. Pensiamo un attimo al panorama tecnologico in Europa. Una dispersione forte di piccoli poli tecnologici di eccellenza, con gradi di coinvolgimento pubblico molto disparati. Ma soprattutto, non collegati fra loro. Non connessi.

Il secondo salto concettuale richiede di passare dal settore al territorio. E’ giusto pensare a settori o aree prioritarie di intervento come fa la Commissione Europea attraverso i Progetti di Interesse Comune Europeo, il cui obiettivo è creare catene di valore strategico su settori specifici. Ed è anche un approccio che voi sostenete. Ma è anche necessario intervenire in chiave geografica, territoriale, per favorire la connessione fra le tante aree di eccellenza e, all’interno di queste aree, favorire una maggior convergenza tra conoscenza, reti di trasporto e di comunicazione, centri di produzione, capacità di intervento del pubblico e del privato.

In Europa abbiamo tante piccole Silicon Valleys: in Francia, in Olanda, in Italia. Viste singolarmente sono gioielli con elevato potenziale, ma da sole devono combattere contro i giganti ad est e ad ovest.

Ma la soluzione non è costruire una grande Silicon Valley in Europa. Questa è una politica industriale che guarda al passato. La soluzione, proprio perché il modus operandi della globalizzazione è la connettività, è di consentire a queste piccole Valleys di cooperare e di trarre vantaggio le une dalle altre.

Questo può essere un modo di riprendersi una sovranità tecnologica che vale per oggi, domani e dopo domani. Ma questo funziona se riacquisiamo fiducia tra di noi.

Non a caso l’ultima parola che avete identificato nelle vostre riflessioni è la fiducia. E concluderò il mio intervento con qualche riflessione a riguardo.

La prima, ha una valenza nazionale. So bene che la fiducia e la stabilità del quadro regolatorio sono fattori essenziali per chi deve investire. Dal mio punto di vista, la necessità di rilanciare gli investimenti passa sia dal rafforzamento della capacità progettuale della pubblica amministrazione, sia dalla semplificazione delle norme, punto che i colleghi francesi hanno ugualmente identificato come perno di una nuova politica industriale europea.

Ma sono anche consapevole che possiamo fare di più ed iniziare già oggi a disegnare misure che favoriscano la ripresa nei settori chiave del manifatturiero e dell’edilizia. Occorre dare un segnale forte, un segnale che siamo vicini ai bisogni di cittadini ed imprese. Sono certo che questa consapevolezza sia ampiamente condivisa nel Governo, e mi auguro che potremo vedere dei risultati concreti nelle prossime settimane.

La seconda riflessione è più sul versante europeo. Lo avete scritto e detto in più occasioni in questa sede. Il metodo intergovernativo può generare sfiducia tra gli Stati, perché spesso si guarda ai negoziati intra-europei come un gioco a somma zero, che guarda all’oggi, più che al domani o al dopo domani. Ma l’Europa è di più della semplice somma delle sue parti, e deve avere un orizzonte più ampio. Lo vedremmo tutti, se riuscissimo a sollevare lo sguardo al di sopra dei muri che noi stessi ci siamo creati.

Ma per davvero cambiare rotta occorre che queste riflessioni fatte in modo bilaterale risalgano al più presto e trovino il giusto spazio all’interno del dialogo comunitario, un dialogo che deve rimanere franco, aperto e costruttivo.

Concludo con questa convinzione: il nostro futuro dipende dalla nostra capacità di ideare, disegnare e produrre i beni e i servizi di domani e dopo domani e di formare le persone, i cittadini, a ripensare costantemente il modo di vivere insieme in modo sostenibile.

A volte, mi sembra che questa evidenza si perda nelle nebbie di Bruxelles, ma è proprio nel cuore delle Istituzioni Europee, e non al di fuori, che questa sfida deve ridiventare una priorità assoluta. In queste nebbie, talvolta si rischia di non vedere il mondo che ci circonda, di perdere di vista una competizione strategica globale nella quale l’Europa è più spettatore che attore.

Ma come dice un noto proverbio: “if you are not at the table, you are on the menu”.

Grazie per l’attenzione.

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