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"Le fondazioni? Per la metà un passo indietro in banca". Parla Garofoli, capo di gabinetto del ministro Pier Carlo Padoan

 14/03/2015

di Sergio Bocconi

«Così si torna allo spirito originale delle leggi Amato-Ciampi che avevano l’obiettivo di svincolare le fondazioni dalla banche conferitarie facendone istituzioni non profit che dalla gestione del patrimonio ricavano le risorse da destinare ai fini statutari». Roberto Garofoli, magistrato e capo di gabinetto del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ha coordinato il tavolo che ha dato vita al protocollo d’intesa Mef-Acri, l’autoriforma delle fondazioni bancarie. «Che si inserisce nella messa a punto di regole sul sistema creditizio di ampio respiro che comprende il tema delle sofferenze, oggetto di approfondimento».

Per le fondazioni si è pensato a un decreto stile banche Popolari?
«Il tavolo volto a finalizzare il protocollo è stato aperto diversi mesi fa, ben prima del decreto che trasforma le grandi Popolari in spa. Nella giornata del Risparmio, 31 ottobre 2014, il ministro Padoan ha fatto riferimento a lavori in corso sull’autoriforma stimolata dal Mef, che sul settore ha conservato poteri di vigilanza mentre ha perso quelli regolatori».

In che modo si torna ad Amato-Ciampi?
«Con il focus sui principi cardine, diversificazione degli investimenti anzitutto. Le fondazioni si obbligano a rispettare il tetto di un terzo del patrimonio impiegato in un solo asset. E intervenendo sulla governance con regole più precise su mandati, selezione dei componenti gli organi, trasparenza e rappresentatività: tutto finalizzato ad aumentare la responsabilità verso il territorio».

Cammino non facile.
«Non sarà una passeggiata. Secondo i bilanci 2013 delle 88 fondazioni sono al di sopra del tetto 14 sulle 35 con patrimonio superiore ai 200 milioni e 29 delle 53 minori. Potrebbero essere anche di più visto che si tratta di dati risalenti a oltre un anno fa e a valori di libro, mentre il protocollo d’intesa fa riferimento a quelli di mercato».

E poi c’è il divieto all’indebitamento.
«Sì, derogabile solo in casi eccezionali e con limite al 10% del patrimonio. Il divieto è fondamentale: in alcuni casi con il debito si è investito nella banca conferitaria. Le fondazioni non devono trasformarsi in hedge fund».
Per rientrare nei tetti ci saranno tre anni di tempo, cinque se la banca non è quotata. Non sarà una passeggiata, ma nemmeno una corsa...
«Il periodo transitorio è necessario per evitare di mettere il venditore in una posizione negoziale debole. Siamo certi che le fondazioni non attenderanno l’ultimo momento utile per rientrare nella soglia».

La riforma non sarà neutrale per le banche: gli enti hanno anche contribuito alla stabilità del loro azionariato.
«Il sistema creditizio deve rafforzarsi e le banche devono essere gestite in modo efficiente: così ci saranno investitori istituzionali disponibili a diventare soci di medio-lungo termine».

C’è il rischio «predatori» esteri?
«In un mondo globale questo timore va certo riconsiderato. La maggiore efficienza, che per le Popolari spa può essere raggiunta anche con auspicabili processi di aggregazione, dovrebbe attrarre investitori istituzionali. Italiani e non».

Sarà di rilievo anche il tema dei compensi.
«Sì, con il tetto di 240 mila euro per i presidenti degli enti maggiori e le remunerazioni complessive parametrate al patrimonio, almeno 33 enti dovranno ridurre i compensi. E per quelli già nei tetti la situazione viene congelata».

Il Mef avrà maggiori poteri d’intervento e controllo. Come è visto dagli enti vigilati?
«Si tratta di un’autoriforma. Che il ministero ha stimolato, trovando in Acri un interlocutore attento. A questo proposito sottolineo le regole sulla trasparenza, analoghe a quelle del settore pubblico: tutto sarà online, dagli appalti ai criteri per selezionare le erogazioni».

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