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Forum sul referendum Brexit con Padoan, Visco, Prodi, Monti, Messina

 23/06/2016

Brexit è un problema a livello globale. Il G20 lo ha incluso fra i possibili shock che potrebbero generare il rallentamento del quadro economico globale».
Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan evidenzia la portata sistemica del rischio che la Gran Bretagna, con il referendum di giovedì, abbandoni l'Unione europea.

Nessuno lo vuole nascondere: l'Italia, inserita nel quadro comunitario con le sue debolezze strutturali e le sue fragilità politiche, corre non pochi rischi.

Il Sole 24 Ore ha organizzato un forum su Brexit e i suoi effetti con Padoan, il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina, il due volte presidente del Consiglio e già presidente della Commissione europea Romano Prodi e l'ex presidente del Consiglio e due volte commissario europeo Mario Monti.

Da questo forum – avvenuto nelle redazioni di Milano e di Roma e in videocollegamento con Londra e Bologna – è emerso un quadro articolato e preoccupante.

Con Brexit, ogni cosa cambierà. Qualunque sia il risultato, l'Unione europea non sarà più quella che abbiamo finora conosciuto e in cui abbiamo finora vissuto. Non solo l'uscita della Gran Bretagna produrrà un mutamento radicale.

Anche un risultato favorevole al “Bremain”, per come la Gran Bretagna ha negoziato il mantenimento della sua partecipazione prossima ventura al consesso comunitario, apporterà significativi cambiamenti.

IL SOLE 24 ORE - Dottor Messina, vorremmo cominciare da lei che, in questo momento, si trova a Londra. Che aria tira nella capitale britannica?

MESSINA - La mia percezione è che, sul referendum inglese, gli investitori si dividano in due tipologie, caratterizzate da due distinti atteggiamenti: gli investitori più speculativi, per esempio quelli che hanno una logica più vicina agli hedge funds, hanno una visione molto negativa e hanno preso posizioni non solo sulla specifica questione di Brexit, ma anche più in generale contro l’Europa e contro la capacità dell’Europa di avere un ruolo nel futuro. Puntano sostanzialmente contro la tenuta dell’Europa. Poi, c’è un’altra classe di investitori di più lungo periodo, che in qualche maniera determinano e assecondano i quadri e le correnti più strutturali. Questi investitori di lungo termine hanno una prospettiva più positiva. E ce l’hanno anche se, nel caso di Brexit, prevedono un calo di dividendi e di flussi di reddito: pensano che una ipotetica realizzazione di Brexit sarà comunque gestibile dal punto di vista delle dinamiche dei loro portafogli.

IL SOLE 24 ORE - Qual è il rapporto fra Brexit e la tenuta in generale dell’edificio europeo?

MESSINA - L’attenzione prevalente dei mercati e della comunità degli investitori istituzionali è più concentrata sull’Europa che non sulla Gran Bretagna. Sotto questo aspetto, va detto che permane un forte scetticismo sulla capacità politica di gestire tematiche complesse in seno all’Europa. Non vedono colpi di reni, appunto di natura politica e istituzionale, dell’Europa in reazione a Brexit. L’unico soggetto al quale i così detti “mercati” e gli investitori istituzionali riconoscono una visione e una capacità di creare valore è la Bce, in particolare il suo presidente Mario Draghi. Comunque vada il voto di giovedì su Brexit, si è creato un vulnus: una ferita inferta non soltanto al meccanismo di permanenza nella Ue, ma in generale all’idea e alla prassi dell’euro. In un contesto così complicato, ho l’impressione che le maggiori correnti contro l’Europa nascano nel mondo più collegato agli Usa. Anche perché, negli Usa, serpeggia un atteggiamento che vede l’Europa meno forte senza la Gran Bretagna. Non mi sorprende che alcune banche americane siano pronte a lasciare Londra. So che si parla di Francoforte o Milano come alternativa. Mi sento di dire che sia giusto che Milano provi a giocarsi tutte le carte, ma non vedo possibile che diventi la piazza finanziaria europea.

IL SOLE 24 ORE - Ministro Padoan, uno dei rischi maggiori di Brexit, sottolineato da più parti, è quello dei fenomeni emulativi da parte di altri Paesi europei. L’Italia è al riparo da questo rischio? Abbiamo sentito le sue ultime dichiarazioni in cui escludeva rischi specifici per l’Italia. Perché?

PADOAN - Voglio subito fare chiarezza, su una questione così dirimente. Quando ho detto che non c’erano rischi specifici, mi riferivo al piano finanziario, non mi riferivo a quello politico. In queste settimane abbiamo letto numerose analisi sull’impatto di una Brexit per i paesi periferici dell’Unione europea, sia sul lato dei debiti sovrani sia sull’equity. Tutte queste analisi hanno evidenziato come esista una forte instabilità. Ma quello che io temo di più è l’emulazione politica che potrebbe manifestarsi non tanto in alcuni Paesi, quanto in alcuni partiti all’interno dei Paesi. Di questo sono preoccupato: con questo referendum si realizza un modello di uscita dall’Unione all’interno delle regole che altri Paesi potrebbero seguire. Ci sono punti di biforcazione, per usare un termine un po’ tecnico, in vari Paesi, perché ci sono elezioni importanti. Questo avviene in un clima nel quale c’è più fluidità politica e, aggiungo, un clima nel quale le scelte politiche ed elettorali hanno molto a che fare con le opzioni europee. Quindi si combinano vari elementi che mi portano a dire che, se c’è la Brexit, c’è un esempio e io dico che sarebbe un cattivo esempio. Ma è sempre un esempio che potrebbe essere concretamente replicato oppure potrebbe esserci anche soltanto la tentazione di replicarlo da parte degli altri Paesi.

IL SOLE 24 ORE - Governatore Visco, Brexit o non Brexit, nei fatti si va comunque verso un’Europa a due velocità?

VISCO - È già un’Europa a due velocità. Il punto è capire come realizzare una convergenza. Io distinguerei tra il breve e il lungo periodo. Nel breve periodo è molto probabile che se la Gran Bretagna uscisse dall'Unione europea, si vedrebbero conseguenze sui mercati finanziari. Ma le banche centrali sono pronte a fare la loro parte per ridurre gli effetti negativi. Sia la Bce, sia la Bank of England. Se si creasse un difetto di liquidità nei mercati, si potrebbe intervenire attraverso operazioni di swap sterlina-euro o sterlina-dollaro. Oppure si potrebbero avviare interventi specifici di rifinanziamento, qualora se ne creasse il bisogno soprattutto in Gran Bretagna. Poi c'è sempre la leva dei tassi, forse poco utilizzabile dalla Bce ma ancora manovrabile da parte della Bank of England. Le banche centrali sono insomma attrezzate per rispondere a un'eventuale turbolenza. L'incertezza potrebbe anche pesare sugli investimenti, e questo potrebbe avere conseguenze sul Pil, anche oltre il breve periodo. Soprattutto sarebbe ancora da decifrare il possibile effetto politico in Europa, perché Brexit potrebbe portare a due opposte reazioni: potrebbe rafforzare le forze centrifughe in Europa oppure quelle centripete. Per realizzarsi, questo secondo scenario richiede molta leadership politica; anche se difficile sarebbe la risposta più corretta.

IL SOLE 24 ORE - Presidente Prodi, collegandoci alle parole del Governatore Visco il rischio Brexit si salda dunque con una Europa che è già a due velocità?

PRODI - L’Europa a due velocità esiste già, lo sostengo da un bel po’. C’è un Paese come la Gran Bretagna che è fuori dall’euro ed è fuori dalla libera circolazione delle persone, poi va a Bruxelles e tratta dicendo «io farò la lotta per il referendum perché non si esca, ma tuttavia “No closer Europe”». Il che significa semplicemente una cosa: ogni volta che voi fate un passo in avanti, io mi fermo. Prendiamo atto che abbiamo già le due velocità. Il mio dubbio è che, in questo contesto, la Germania rallenti e non abbia alla fine voglia di una Europa federale. Sono i timori di Wolfgang Schäuble, che in Italia è conosciuto dall’opinione pubblica come un falco rigorista, ma che in realtà è un forte sostenitore dell’Unione europea.

IL SOLE 24 ORE - Brexit o no, ci sarebbero comunque danni sul posizionamento internazionale dell’Unione Europea o effetti imitativi?

PRODI - Non sono un esperto banchiere, ma vedo molto meno gravi i pericoli che vengono elencati in questi giorni dal Tesoro inglese e dai finanzieri della City. L’articolo 50 del Trattato di Lisbona prevedeva nel 2007 che uno potesse abbandonare l’Unione trattando col Consiglio europeo le modalità di recesso. È un brutto messaggio perché si interpreta l’Europa come una porta girevole da cui si può uscire. Allo stesso tempo, si attiva un negoziato e nel negoziato abbiamo tutti l’interesse al libero scambio. Esattamente come prima. Di Brexit, dunque, vedo soprattutto le conseguenze di natura politica. Di certo in India, in Australia e negli Stati Uniti considerano l’Unione europea con lenti britanniche. Dunque, anche solo l’ipotesi di una uscita inglese è negativa. Sull’attivazione di un processo imitativo di abbandono dall’Europa da parte di altri Paesi, avrei dei dubbi. Basta pensare alla Polonia e alla Lituania, in generale ai Paesi dell’Est e del Baltico, che ricevono moltissimi finanziamenti comunitari. Anche la posizione di altre realtà come la Danimarca, la Svezia e l’Olanda, mi pare più sfumata.

IL SOLE 24 ORE - In caso di Brexit prevede effetti sul posizionamento della City?

PRODI - No, non vedo conseguenze. La City è la City non perché è in Europa, ma per via della raffinatezza dei suoi strumenti e per la lingua. A renderla una grande piazza finanziaria, sono le competenze che ne fanno un caso unico. Tratta il dollaro e l’euro, ma anche per esempio il renminbi come tutte le altre monete. Sicuramente qualche azienda multinazionale che ha la sede in Gran Bretagna o qualche impresa cinese che deve stabilire la sede europea preferirà Bruxelles o Parigi a Londra, ma sono cose minori. Anche il rafforzamento delle Borse continentali andrà adagio. Se ci fosse un passaggio di potere a qualche Borsa continentale, gli inglesi forse avrebbero anche interesse ad aiutare un poco Piazza Affari, di cui sono proprietari. Ma io vedo la City forte per le competenze e la lingua, per la storia di Londra e non perché sia membro dell’Unione Europea.

IL SOLE 24 ORE -Professor Monti, secondo lei quali potrebbero essere le conseguenze politiche di Brexit?

MONTI - Anch’io vedo un rischio abbastanza forte di emulazione politica: questo non necessariamente si tradurrà nell’effettiva uscita di altri Paesi, ma forse in una maggiore accondiscendenza delle classi politiche a indire referendum sulla permanenza nell’Unione. Ma questo non è l’unico effetto di disgregazione possibile, in caso di Brexit. Ne vedo un altro: il tavolo del Consiglio europeo senza la Gran Bretagna sarebbe di certo meno ostico e un po’ più facile, ma perderebbe anche una delle voci più forti a favore del libero mercato, della concorrenza, della competitività. Il rischio è che senza la Gran Bretagna gli altri Paesi si “accartoccino” un po’ e che, in proporzione, aumenti il peso di Germania e Francia. Ma i problemi sarebbero importanti anche se la Gran Bretagna restasse nell’Unione europea, perché a febbraio è accaduto qualcosa di grave: gli altri 27 Stati dell’Unione europea hanno dato prova di grandissima sottomissione alla seduzione britannica, o al ricatto britannico, concedendo condizioni di favore al Paese. Questo è grave perché crea un’asimmetria. La conseguenza è che il rischio di emulazione ci sarà anche nel caso in cui la Gran Bretagna restasse nell’Unione europea: altri Stati potrebbero infatti chiedere di rivedere le condizioni di appartenenza all’Unione europea. Tutto questo va contro la regola base dell’Unione: cioè la parità di condizioni.

IL SOLE 24 ORE - È vero che il danno dell’accordo di febbraio esiste proprio perché è stato fatto, però c’è anche una clausola che dice che quell’accordo varrà solo se la Gran Bretagna resterà nell’Unione europea. Qualora uscisse, l’accordo uscirebbe dal tavolo. Per di più quell’accordo va negoziato e riempito, e alla fine andrà anche ratificato da tutti i Paesi...

MONTI - Per fortuna, ha ragione, è un accordo di principio, non ancora un accordo operativo e io personalmente nutro la speranza che nel caso il Regno Unito resti e che quindi quell’accordo debba essere tradotto in regolamenti, direttive, regole operative, non prevalga una seconda volta, a seguito di un’incomprensibile complesso d’inferiorità dei 27, il desiderio di elargire favori particolari al ventottesimo. Auspico che non si uccida il vitello grasso solo perché non è uscito il ventottesimo. E mi pare di capire che la Commissione europea che, con il suo potere esclusivo d’iniziativa è l’istituzione che dovrebbe poi mettere in musica operativa questi accordi, non sia dell’idea di erogare un’altra volta una particolare largesse.

IL SOLE 24 ORE - Sembra che dei tre macro temi (contagio politico, instabilità dei mercati e rallentamento economico) quello che più vi preoccupa sia il primo. Per quanto riguarda l'Italia, possiamo dire che l'instabilità dei mercati può pesare meno del contagio politico? E soprattutto: esiste un piano Bce in caso di Brexit che sia in grado di far fronte all'instabilità in modo adeguato?

VISCO - Il rischio è che un’incertezza prolungata nell’Unione europea, anche su decisioni fondamentali come l'Unione dei mercati dei capitali, possa determinare turbolenze nei mercati finanziari. In assenza di interventi di natura politica, si fa sempre riferimento a possibili interventi della Bce. Ma la Bce non può migliorare le condizioni strutturali dell'economia né aumentare l'integrazione tra i diversi Paesi: può solo intervenire per evitare gli effetti negativi del materializzarsi di alcuni rischi. I rischi potrebbero colpire il mercato azionario, quello dei titoli pubblici, il mercato valutario, la valutazione e il finanziamento delle banche; per i rischi legati a carenze di liquidità la Bce può intervenire con tutti gli strumenti che ha a disposizione. Ma non vi sono nuove misure create ad hoc per far fronte al rischio di instabilità finanziaria che potrebbe colpire alcune economie: gli strumenti ci sono già. Pensiamo per esempio alle Omt, che sono state pensate nel 2012 per difendere l’area euro dal rischio di frammentazione e di ridenominazione: questi sono dunque rischi su cui si può intervenire con gli strumenti già esistenti. Ma nessuno di questi strumenti può affrontare problemi di natura strutturale. Se la domanda è quanto l’Italia si trovi in posizione di svantaggio rispetto ad altri paesi,sappiamo che non siamo messi molto bene, ma secondo alcuni indicatori di sensibilità a Brexit, tra i 20 Paesi più in pericolo in caso di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea l’Italia si trova agli ultimi posti. Ai primi ci sono paesi molto integrati con il Regno Unito sul piano reale o su quello finanziario, quali Irlanda e Lussemburgo; anche per Francia e Germania gli effetti potenziali sono considerati maggiori che per l’Italia. Il nostro interscambio di beni e servizi con la Gran Bretagna è intorno al 3% del Pil.

MESSINA - Se posso aggiungere. Sono molto d’accordo sulla distinzione tra l’Area Europa e la Zona Euro, perché in realtà io credo che gli elementi di maggiore fragilità, fermo restando che tutte le considerazioni svolte sull’importanza dei trattati e le implicazioni sull’Unione europea, sia la zona Euro. Non è tanto la componente dell’Europa, dove certamente le implicazioni sul Pil potrebbero essere ritenute significative, ma si tornerebbe di nuovo alla scommessa che in particolare nel mondo degli Stati Uniti, dove partì la crisi del debito del 2011, sulla tenuta della zona Euro. Cosa che io credo assolutamente esagerata come percezione, ma non c’è dubbio che gli impatti in particolare per il nostro Paese li vedo molto più concentrati sullo spread BTP-Bund, piuttosto che sull’implicazione della dinamica del Pil, che, da un punto di vista immediato non sarebbe toccato, perché le nostre relazioni nei confronti Uk non sono così elevate. La dimensione del nostro debito pubblico che è rimasta elevata nel corso di questi ultimi anni e rende problematico il rapporto debito-Pil apre il varco a chi punta al nostro Paese come a un Paese che potrebbe avere impatti superiori rispetto ad altri. Poi è chiaro che la dimensione dello scudo Bce è talmente forte che non ci farebbe ritornare alla situazione del 2011, ma io vedo la possibilità di un impatto anche significativo – parlo di 50–70 basis points - e sull’Italia si sommerebbe indubbiamente la condizione di percepita maggiore fragilità dei nostri crediti deteriorati. Dico “percepita”, perché il livello dei collaterali e delle nostre garanzie è di gran lunga superiore rispetto a quello di molti altri Paesi. E quindi su questo si innesteranno correnti più speculative, non suffragate dai sottostanti. Perché io l’ho detto in più occasioni: se si guardasse il livello dei derivati presenti nei bilanci di molte altre banche internazionali, probabilmente il nostro sistema bancario – se si facesse la combinazione di sofferenze e derivati e la si rapportasse al patrimonio – non sfigurerebbe rispetto ad altri sistemi bancari. Però non c’è dubbio che in questo momento, se verrà posta un’enfasi negativa, il nostro Paese avrà una maggiore necessità di avere una copertura nell’ambito dello scudo BCE che riguarda proprio la zona euro. Quindi, pur non aspettandomi degli impatti così fortemente negativi, io credo che dovremmo essere uno dei paesi che dal punto di vista delle condizioni finanziarie potrà avere un impatto importante dall’uscita.

IL SOLE 24 ORE - Ricolleghiamoci all’ultima cosa che ha detto il governatore sul rallentamento del processo di integrazione e anche all’osservazione che ha fatto il professor Prodi sull’atteggiamento di Schäuble. Schäuble, non dimentichiamolo, molto vituperato in Italia, però è l’unico politico tedesco con una visione europea. Saremmo curiosi di sentire dal ministro Padoan cosa ricava dalle sue conversazioni con il ministro Schäuble, anche a proposito di questo.

PADOAN - Volevo toccare esattamente quel tema e aggiungere un’altra cosa. Non dimentichiamoci che il rischio Brexit viene percepito anche a livello mondiale. In sede di G20 l’ipotesi di un’uscita del Regno Unito dall’Unione a 28 è considerato come uno shock capace di rafforzare i rischi al ribasso della crescita economica globale. Io sono molto preoccupato, come dicevo prima, per gli effetti emulativi di questo referendum, che arriva quando ancora non siamo usciti da una fase congiunturale che è stata definita di “stagnazione secolare”. E sono preoccupato per quello che sarà l’Ue senza Gran Bretagna. Se guardo ai passaggi verso una maggiore integrazione legati agli ultimi dossier discussi negli Ecofin degli ultimi mesi ricordo come la Germania, con il ministro Schauble, abbia espresso posizioni sempre per la soluzione più favorevole al Regno Unito e al ministro Osborne. Mi chiedo che cosa succederebbe nel caso di uscita della Gran Bretagna, con un’Unione che riparte da 27. L’Ue non sarà più quella di prima. E questo è un fatto. Le implicazioni per l’Europa, indipendentemente o meno dalla questione dell’effetto-imitazione politica a livello di singolo Paese, saranno rilevanti. L’Europa secondo me farebbe un grave errore a dire: «Va bene, siamo uno di meno, andiamo avanti ugualmente». Non è così. Mi chiedo da dove ripartiranno progetti strategici come la capital market Union, mi chiedo quale sarà l’agenda europea a 5 o 10 anni senza la Gran Bretagna. Si determinerebbe un gap policy making molto forte, che i leader politici dell’Unione dovranno colmare. La Ue farebbe un grave errore se provasse ad andare avanti come se nulla fosse accaduto. Dobbiamo riconsiderare la situazione, anche se Brexit non ci sarà, perché c’è stato già evidentemente il vulnus politico.

IL SOLE 24 ORE - Ministro non ha la sensazione che le opinioni pubbliche siano poco sensibili alla prospettiva di una capital markets union?

PADOAN - Le opinioni pubbliche sono sensibili alle scelte politiche che riguardano i livelli di vita e benessere e, in questo senso, i temi del welfare e dell’occupazione sono costantemente al primo posto delle preoccupazione. Si tratta dei temi su cui il Governo italiano si è sempre posto in prima linea per orientare l’agenda politica europea. Se la reazione al referendum fosse una maggiore attenzione verso questi temi, allora sarebbe un effetto positivo.

IL SOLE 24 ORE - La Gran Bretagna non è mai stata un partner semplice, da gestire, a Bruxelles.

PRODI - Voglio alleggerire un poco questa discussione. Mi rivolgo a Mario, che ha il senso dell’umorismo: non trovi un poco strano vedere oggi nei panni dei grandi difensori dell’Unione Europea Blair e Brown, che ci hanno fatto morire durante la nostra Commissione? Loro bloccavano ogni proposta fino a mettersi in contrasto coi commissari britannici, che erano molto più europeisti dei loro Governi. Io ho fatto il presidente della Commissione a 15 e della Commissione a 25: non c’è stata alcuna differenza. Il problema era la Gran Bretagna. Noi dobbiamo fare di tutto perché essa stia dentro. Ma dobbiamo anche essere chiari dicendo che quanto è capitato negli ultimi anni ha indebolito in maniera incredibile Bruxelles. Naturalmente mi resta, conoscendo la meravigliosa virtù empirica dei britannici, la grande speranza che alla fine noi ci si riesca a unire di più. Così non si va avanti.

MONTI - Ci ritroveremo in ventisette orfani.

PRODI - Sì, ma la Gran Bretagna non è né la mamma né il babbo.

IL SOLE 24 ORE - Brexit avrebbe solo effetti negativi o anche positivi sull’Unione europea? In fondo, come si diceva ora, la Gran Bretagna è sempre stata un ostacolo a molti tentativi di integrazione.

MONTI - Senza la Gran Bretagna si perde di certo la spinta a creare un mercato più libero e più concorrenziale. Gli inglesi hanno sempre giocato un ruolo fondamentale in questo percorso. Io per dieci anni, occupandomi di mercato e di concorrenza, ho avuto in Londra il mio principale alleato. La sua uscita toglie la spinta, tanto necessaria all’Europa, verso più mercato, più riforme strutturali e così via. Quindi serve che in questo gioco di forze, qualcun altro arrivi a supplire la mancanza inglese su queste tematiche. Ma è anche vero che l’uscita della Gran Bretagna eliminerebbe il principale freno a un’ulteriore integrazione europea, dato che la Gran Bretagna ha sempre agito contro. Se si sono alimentati dei nazionalismi, è anche perché è andata avanti l’integrazione di mercato ma è rimasta al palo quella sociale e fiscale. Quindi ora viene meno, con l’uscita eventuale della Gran Bretagna, il principale fattore di resistenza ideologica e pratica a un maggiore coordinamento fiscale.

IL SOLE 24 ORE - Quale atteggiamento potrà avere l’Europa con la Gran Bretagna in caso di Brexit? Le ultime dichiarazioni di esponenti politici tedeschi e francesi sono di totale chiusura.

PADOAN - Negli ultimi giorni il linguaggio usato da esponenti dei governi di Francia e Germania è stato di maggiore chiusura, nel senso che o si è dentro o si è fuori. Poi però bisognerà vedere chi si siederà ai tavoli negoziali che verranno. I colleghi ministri quando parlano di questo in molti casi lo fanno avendo in mente il loro “mercato politico” interno. Vedremo la prossima settimana nel vertice dei capi di stato e di governo che conseguenza avranno queste dinamiche. Certamente per i leader politici l’incertezza riguarda, come dicevo prima, l’intera unione. Se ci sarà Brexit serviranno due anni di negoziati per trattare come la Gran Bretagna uscirà dall’Unione e poi un altro negoziato sulle modalità di rientro. Tutto questo potrebbe durare a occhio cinque anni. Mi chiedo: se in questo tempo una multinazionale dovesse fare delle scelte come si porrà?

VISCO - Il principale problema per i prossimi due-tre anni riguarda le possibili conseguenze per l'unione economica e monetaria. Dopo aver fatto, l'unione monetaria, la moneta unica, nel 1998 ci siamo fermati per oltre dieci anni; ci siamo resi conto che la crisi dei debiti sovrani ha in larga misura riflesso la percezione che la costruzione europea fosse a rischio, che si potesse rompere quell'unione monetaria. Ma se alla lunga una moneta senza stato non può mantenersi, occorre conseguire chiari progressi lungo la strada dell'unificazione europea. Li abbiamo fatti? Siamo ancora impegnati a completare l'unione bancaria, e non sono pochi gli ostacoli anche politici; si parla di non poter condividere i rischi senza prima ridurli decisamente; si propone un ministro delle finanze europeo senza che vi sia accordo sul punto fondamentale dato dalla necessità di disporre di risorse comuni, strumenti di debito comune, forse un debito comune, per mettere in atto una politica di bilancio unica, senza la quale è difficile operare con una politica monetaria unica. Il mio timore è, quindi che, mentre si dovrebbe affermare l'idea che su alcuni temi politici fondamentali (si pensi alla sicurezza o alla grande questione dell'immigrazione) non ci si possa cullare sull'illusione, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, che siano possibili risposte nazionali anziché continentali se non mondiali, si dovessero prendere questo percorso si possa indebolire. Anziché prendere quindi decisioni politiche comuni, alle quali poi ancorare il processo faticosissimo di costruzione più “autentica” dell'unione economica e monetaria (per usare la terminologia del rapporto del Presidente dell'Unione europea del 2012), si potrebbero determinare ritardi per il completamento dello stesso processo di unificazione economica e monetaria, ritardi connessi con l'instabilità dovuta a incertezze nella risposta politica.

IL SOLE 24 ORE - Ministro Padoan, state facendo gli stress-test al bilancio pubblico? Perché, se torniamo ad avere il problema dello spread, non vorremmo che l’aumento dell’onere del servizio del debito mangi quei già bassissimi margini che abbiamo per le politiche fiscali espansive.

PADOAN - Quegli stress-test li facciamo sempre. Nel senso che la sensitività del bilancio pubblico ai tassi d’interesse è, evidentemente, continuamente monitorata.

IL SOLE 24 ORE - Ministro, vorremmo riallacciarci a quello che diceva prima, cioè all’impatto di Brexit sul resto del mondo. Vedendola dagli Stati Uniti c’è molta preoccupazione: Barack Obama è andato a Londra per sposare la causa del Sì e ci sono state reazioni su più fronti. La Federal Reserve ha affrontato la preoccupazione finanziaria rimandando l’aumento dei tassi d’interesse. Sul fronte delle aziende, per la JP Morgan, Jamie Dimon ha mandato lettere annunciando ai 4mila dipendenti che probabilmente molti saranno licenziati se ci sarà Brexit. La Ford ha invitato tutti i 14mila dipendenti britannici a votare per il Sì, quindi un messaggio più velato. Sul piano politico, da un punto di vista americano, c’è un problema che preoccupa molto. L’altro punto di vista americano è che, comunque vada, l’Europa dovrebbe cambiare qualcosa, al di là del welfare.

PADOAN - Il G20 nelle ultime riunioni ha accolto la preoccupazione sul multilateralismo che non è, come dire, formale ma è sostanziale: è riportato nei comunicati del G20 ma è stato anche oggetto di discussioni del G20. Si è aggiunta la Brexit alla lista purtroppo non breve dei rischi al ribasso del quadro globale. La crescita insoddisfacente è un problema europeo, ma anche un problema globale. Quindi più che un rischio al multilateralismo direi che è una ulteriore complicazione alla governance del multilateralismo.

IL SOLE 24 ORE - È stato evidenziato che uno dei possibili rischi riguarda le banche e che una delle risposte potrebbe essere una maggiore integrazione, in particolare l’unione bancaria. Venerdì scorso c’è stato un Ecofin abbastanza importante in cui sono state anche prese alcune decisioni (per esempio quella sul tetto al possesso dei Titoli di Stato) ed è stato definito un calendario. Vorremmo capire dal ministro Padoan se ci sono dei segnali positivi in quella direzione.

PADOAN - Le conclusioni del Consiglio sulla roadmap successiva all’unione bancaria sono un compromesso che ribadisce che l’unione bancaria è un processo e riconosce che ci sono alcune cose che vengono prima e altre che vengono dopo. Tra le cose che vengono prima c’è il cosiddetto «common backstop», che è stato peraltro già deciso, che bisogna implementare e che rinvia nel tempo l’elemento più controverso che è la garanzia comune sui depositi. Non dico nulla di segreto se ricordo che la Germania è il Paese che più resiste all’introduzione di questo meccanismo. Inoltre, il Consiglio ha sospeso, in attesa dei risultati del Comitato di Basilea, qualsiasi presa di posizione sull’esposizione delle banche ai debiti sovrani e ha stabilito una roadmap che alterna riduzione di rischio a condivisione di rischio. La si può leggere in vari modi: io l’ho letta come un utile compromesso, vista la complessità di posizioni dei vari Paesi che in alcuni casi erano polarmente opposte.


IL SOLE 24 ORE - Dottor Messina, vorremmo sapere se è più o meno preoccupato di quanto fosse all’inizio di questo Forum. Qualcuno ha paragonato l’effetto di Brexit sull’Europa a quello devastante che ebbe il collasso di Lehman Brothers sugli Stati Uniti e in generale sui mercati.

MESSINA - Mi sono appuntato un po’ di frasi pronunciate sulle tematiche dell’Europa: «uniti nella diversità», «roadmap», «compromessi». Ci sono una serie di temi che rafforzano quello che è il percepito da parte degli investitori: finché si parla di «compromessi», il processo, nel caso ci dovessimo trovare di fronte a degli shock, ha una vera difficoltà nel trovare una cabina di regia che prenda decisioni immediate ed efficaci. Con tutto il lavoro straordinario che stanno facendo Padoan in ambito Ecofin e Visco in ambito Bce, è riconosciuta anche dagli investitori internazionali la capacità dell’Italia di essere molto più propositiva, di essere sicuramente un player che ha un ruolo. Ma, indubbiamente, a fronte di uno shock che dovesse nuovamente ripuntare il debito pubblico del nostro Paese, il livello dei crediti in sofferenza - che considero assolutamente esagerato – verrà riportato al centro dell’attenzione. Non sarà in nessun modo una situazione pre-Lehman crisis, quindi non ci sarà sicuramente uno schema simile, ma io un impatto tanto morbido sulle condizioni finanziarie del nostro Paese non lo vedo. Vedo invece una situazione che può portare un impatto visibile sull’Italia. La dimensione dello shock dipenderà naturalmente dall’impatto sui corsi delle azioni bancarie che saranno le più toccate. Anche se, analizzando quello che è successo nelle due settimane in cui Brexit ha preso una maggior probabilità di realizzazione, non sono stati solo i titoli della banche italiane ad avere delle contrazioni, il calo è stato generalizzato. Però i mercati funzionano con prese di posizione, e quando tutti si mettono dalla stessa parte, un impatto noi ce l’avremo e ce lo avremo significativo sulle condizioni finanziarie della borsa e dello spread del nostro Paese.

IL SOLE 24 ORE - Una domanda per il ministro Padoan. Abbiamo l’impressione che da questa conversazione esce forte la paura di instabilità politica e sui mercati. Allora, un modo per evitarla è quella di avere una risposta politica e abbiamo l’impressione che la risposta politica a 27 Paesi sia pressoché impossibile. È possibile una risposta a 6 Paesi?

PADOAN - Allo stato in cui siamo, credo che sia opportuna una risposta politica a livello di leader, nel vertice che si terrà la prossima settimana.

MONTI - A proposito di multilateralismo, uno dei maggiori errori che i britannici stanno commettendo è quello di pensare che uscendo dalla Ue potrebbero poi riacciuffare accordi commerciali che oggi hanno con Paesi terzi in quanto Unione Europea. Come è stato osservato nelle settimane scorse, dovrebbero mettersi in coda per nuovi negoziati e poi, siccome l’epoca storica nei confronti dell’apertura dei commerci si è invertita, credo che forse non potranno mai ottenere quelle condizioni che lasciano, se lasciano l’Unione europea.

Il SOLE 24 ORE - Un dato di fatto è che la sterlina ha perso quasi il 10% dall’inizio dell’anno e la Bank of England si è guardata bene dall’intervenire. Quindi l'approccio della Bank of England, malgrado si stia parlando di azioni coordinate, ha lasciato cadere la sterlina. E la Bank of England ha reso abbastanza chiaro all’opinione pubblica e al governo che non intende intervenire in caso di Brexit. Il free fall è qualcosa che sta come atto politico, non finanziario, esattamente l’opposto dell'atteggiamento della Bce, tant'è vero che la sterlina è andata in caduta libera sul mercato in queste settimane. Come giudicate questo elemento?

VISCO - Non sono d’accordo: la sterlina non è andata in caduta libera, è scesa dell’8% alla fine dell’anno scorso e poi si è stabilizzata non appena è stata fissata la data del referendum e sono vari mesi che sta più o meno così. Non aveva senso intervenire in quel caso ed è evidente che adesso si pone un problema molto diverso: cioè che succederà, e, nel caso in cui succedesse qualcosa, cosa fare; ora è sicuro che si interverrebbe a fronte di rischi di liquidità. Quanto alla sterlina, i cambi non sono controllati dalle banche centrali, non sono un obiettivo ma un canale nella trasmissione degli interventi di politica monetaria. E, se serviranno euro per far fronte a movimenti di capitale che reagiscono a Brexit, sarà possibile proprio in questo caso ricorrere a interventi di swap, scambi cioè tra valute delle diverse banche centrali. In questo caso ci sarebbe, quindi, una gestione normale a fronte di uno shock ben definito; in precedenza non vi è stata alcuna reazione perché non c’era nulla a cui reagire. Non credo ci sia dunque un legame tra diversi approcci al mercato dei cambi da parte di una banca centrale o dell’altra. Senza dimenticare, poi, che, nell’ambito del G7, vi è un chiaro accordo di non intervenire sui cambi in modo non coordinato.

IL SOLE 24 ORE - Nel caso di un forte shock, anche se non è Brexit, che cosa possiamo fare se le cose si mettono veramente male? Se non è Brexit, può essere Grexit, Trump, la Cina, la recessione. Sono state menzionate le Omt, ma le Omt possono essere utilizzate solo se uno Stato è sotto un programma di aiuto. Il fondo salvastati Esm è troppo piccolo per aiutare finanziariamente stati in difficoltà con debiti molto elevati. Il programma di acquisti della Bce è fatto in modo tale che vengono comprati più titoli tedeschi, mentre la Germania è il paese che ne ha meno bisogno. Che paracadute abbiamo in caso dovesse scoppiare una grande crisi?

VISCO - Chiediamolo all’Europa e vediamo cosa risponde. C’è un problema di limitatezza degli strumenti, di backstop nel caso degli interventi per la risoluzione di crisi bancarie che, come ha detto il ministro Padoan, è qualcosa di già deciso ma non è operativo né è dotato di sufficienti dimensioni. Quando c’è uno shock, una grande crisi, si fa quello che si fa in occasione delle grandi crisi: ci si incontra, si discute, si trova in tempi rapidi lo strumento per intervenire. È quello che è stato fatto nel 2012 e credo che la situazione di oggi sia meno preoccupante di allora, anche se ci sono delle specifiche aree di grande preoccupazione, e lo vediamo bene nel settore bancario. I cambiamenti normativi e regolamentari e di ordinamento di questi ultimi anni rendono oggi più difficili risposte dirette e decise a problemi specifici, ma di fronte a un forte shock, una grande crisi, non ho dubbi che qualcosa sarebbe messo in campo. Quanto alle Omt, c’entrano ma non è questione di dimensioni dell’Esm. Le Omt sono operazioni dirette a contrastare tensioni non giustificate sui titoli, tensioni che portano a mercati finanziari frammentati tra i diversi paesi dell’area dell’euro e rendono particolarmente difficile la trasmissione della politica monetaria unica. Il loro modo di operare, che richiede condizionalità nelle risposte dei paesi che vi ricorrono, è ben definito. E, sulla politica di acquisto di titoli messa in atto in questo momento dalla Bce, quella viene oggi fatta secondo le capital key, niente è scritto nella pietra e si farà tutto ciò che è nece ssario per conseguire l’obiettivo della stabilità monetaria. Il problema di fondo, semmai, è la volontà e la capacità di andare avanti nel completare il processo, molto complesso, di unificazione europea in un momento in cui la risposta del mercato politico, come diceva prima il ministro Padoan, non è che sia la più agevole possibile.

MONTI - Farei un’osservazione sulle Omt. Nel giugno 2012 sono state poste le condizioni perché la Bce potesse creare questo strumento. Come ogni tanto capita alla Germania, l’eccesso di sua preoccupazione nel breve periodo ha dato poi luogo a effetti non graditi alla Germania stessa. Mi spiego meglio, nelle ultime ore del negoziato del Consiglio dei capi di governo dell’Eurozona del 29 giugno 2012 la signora Merkel è riuscita, dopo aver tanto concesso, a mantenere una cosa che le stava carissima, cioè la Troika per i Paesi che chiedessero quello che poi si sarebbe chiamato Omt. Tra parentesi vale la pena di ricordare che oggi (ndr: ieri per chi legge) la Corte Costituzionale Tedesca ha tolto l’ultima sua riserva sull’uso di questo strumento. Ebbene, l’Omt e la delibera del giugno 2012 che ha ispirato l’Omt si iscrivevano in una logica puramente tedesca... cioè, puramente tedesca, che rispettava l’esigenza tedesca, perché sarebbe stato possibile intervenire a stabilizzare i titoli dei Governi di quei Paesi che fossero in regola con tutte le guideline dell’Unione Europea, quindi i Paesi virtuosi. Questo alla Germania non è bastato, ha voluto mettere anche il peso della Troika. La conseguenza è stata che finora nessun Paese ha fatto richiesta di utilizzare l’Omt, anche quando poi è stato formalmente disponibile, io penso anche per il desiderio di non avere a che fare con la Troika. In fondo a largo raggio si è supplito alla mancata attivazione dell’Omt come strumento di sostegno con il Quantitative Easing, che è stato molto più largo, molto meno selettivo, molto meno in linea col principio tedesco di aiutare un po’ sì, ma solo quelli che se lo meritano. E quindi l’insoddisfazione profonda che oggi il mondo monetario-politico tedesco manifesta nei confronti del QE, e delle forme e della dimensione che ha preso, dovrebbe anche contenere un po’ di autocritica perché se la nascita dell’Omt fosse stata condizionata sì dalla sua applicabilità solo ai Paesi in regola con le direttive, con le linee guida comunitarie, ma senza il gravame della Troika. Probabilmente quello strumento sarebbe stato più usato, però usato per definizione soltanto da quelli che intanto facevano i progressi. Mentre col QE credo si è un po’ più esposti alla critica che i tedeschi amano fare, che la larghezza monetaria riduce gli sforzi di aggiustamento di bilancio e di riforme strutturali.