“Basta tagli ora si investe”
10/09/2016Intervista di Luca Cifoni e Osvaldo De Paolini a Pier Carlo Padoan.
Ministro Pier Carlo Padoan, le voci di tensioni al vertice del Montepaschi correvano da qualche giorno. Era davvero tanto difficile ricomporre la frattura che si andava aggravando tra l'ad Fabrizio Viola e il titolare del progetto di ricapitalizzazione, JpMorgan?
«Viola ha fatto un importante lavoro di rilancio dell'istituto, riportandolo alla profittabilità. Ha ereditato una situazione molto difficile e l'ha gestita al meglio, e ha anche affrontato due aumenti di capitale. Non so di tensioni, credo che si siano incontrate una esigenza personale di cambiare contesto dopo tante sfide vinte e l'esigenza della banca di implementare un piano ambizioso e impegnativo con energie nuove».
Ma non si è pensato che un avvicendamento così traumatico al vertice di un istituto da mesi sotto i riflettori dei mercati internazionali potrebbe rivelarsi pericoloso per la stabilità del sistema?
«I mercati esprimeranno un giudizio sulla celerità della sostituzione e il profilo del nuovo manager. Sono fiducioso che sarà un giudizio positivo».
Viste le novità, cambierà la struttura dell'aumento di capitale da 5 miliardi?
«Questa è materia di competenza dei vertici dell'istituto. Posso solo dire che il piano attuale è considerato efficace».
È ancora convinto che la sua esecuzione possa avvenire entro l'anno? Goldman Sachs ha messo le mani avanti affermando che non potrà avvenire prima del voto sul referendum.
«L'intero sistema finanziario ha incorporato l'ipotesi di un rischio-referendum. Tutto ciò rende i mercati meno fluidi, meno ricettivi in generale, prima del referendum. Il management valuterà la finestra di tempo utile, come previsto dal piano».
Ci saranno ripercussioni per l'offerta della seconda tranche di Poste?
«La seconda tranche di Poste vedrà sicuramente la luce. Le privatizzazioni continuano, ma è giusto che Poste valuti il timing che ritiene più opportuno».
Se il collocamento slitta all'anno prossimo vuol dire che la quota di debito relativa non verrà ridotta. Pensate ad azioni sostitutive per rispettare l'impegno preso?
«L'obiettivo di ridurre il debito resta, ma non siamo con l'acqua alla gola. Se la riduzione risulterà inferiore alle previsioni, non faremo drammi. Nessuno ci chiede di svendere, vogliamo valorizzare».
E se il giorno del referendum dovessero prevalere i no? C'è chi sostiene che potrebbe essere peggio di Brexit per la Gran Bretagna.
«Sarebbe davvero un grave danno per il Paese. Le riforme istituzionali sono infatti un potente meccanismo di irrobustimento del sistema economico, non solo perché riducono i costi della politica ma perché rendono più semplice e più spedito il processo legislativo e quindi riducono l'incertezza, un pericoloso elemento di freno per la crescita».
L'Italia cresce meno delle attese. In che misura ne prenderete atto nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza?
«Sono reduce dal G20 e posso dire che il quadro macroeconomico generale è peggiorato. Le istituzioni internazionali dicono che non migliorerà nei prossimi mesi ed è chiaro che questo si ripercuoterà in modo significativo su un'economia aperta come quella italiana. Quindi le nostre previsioni di crescita, ma anche di inflazione, saranno riviste verso il basso e questo meccanicamente ha effetto sulle grandezze di finanza pubblica».
Però il rallentamento pare più vistoso nel nostro Paese.
«Sul secondo trimestre l'Istat ha detto cose molto precise. La crescita sul trimestre precedente è zero, con un piccolo miglioramento che ha effetto sulla crescita tendenziale e sulla crescita acquisita, che risulta più elevata di quella che avevamo a giugno 2015. Anche se parliamo di grandezze intorno allo 0,1%, l'espressione corretta è che la crescita continua, anzi si rafforza. Detto questo non è che io mi accontenti».
In questa situazione cosa cambia per i conti pubblici?
«La finanza pubblica continua nella sua direzione di aggiustamento, il che vuol dire che l'indebitamento (deficit, ndr ) rispetto al Pil continuerà a calare, mentre il debito dovrebbe andare nella direzione giusta: cioè stabilizzarsi rispetto al prodotto e probabilmente cominciare a diminuire. È in particolare su quest'ultimo rapporto che l'inflazione bassa ha effetti negativi. Ma l'andamento dei prezzi non dipende da noi».
Cosa dobbiamo aspettarci nella legge di bilancio?
«La prima cosa è l'eliminazione delle clausole di salvaguardia. Stiamo parlando di 15 miliardi, quasi un punto di Pil, per evitare un aumento di imposte indirette di importo equivalente. Poi resta un margine stretto e anche per questo il governo si concentra su alcune misure selettive raggruppate in tre grandi capitoli. Il primo è il sostegno agli investimenti e alla produttività, poi ci sono le pensioni, di cui si è parlato molto, e un capitolo che potremmo chiamare redistribuzione o risorse per la povertà».
Questi sono i titoli. E le misure specifiche?
«Su queste stiamo ancora discutendo. Le risorse sono limitate e quindi è importante usarle bene. Le misure che hanno già funzionato probabilmente saranno confermate, come il super-ammortamento, apprezzato dalle imprese. Poi c'è la riduzione dell'Ires che già era nella legge di Stabilità 2016. E gli incentivi alla produttività: stiamo valutando come aumentarli».
Per fare tutte queste cose serviranno anche coperture finanziarie adeguate.
«Pensiamo di riaprire la voluntary disclosure, e vogliamo anche aumentare l'efficienza della lotta all'evasione che fino ad ora ha dato comunque risultati più che soddisfacenti. Anche i suggerimenti che abbiamo chiesto a Fmi e Ocse potranno essere utili per recuperare gettito. Poi si continuerà la spending review, dentro margini che però via via si stanno restringendo perché abbiamo già eliminato molti sprechi e quindi gli spazi per tagli aggiuntivi si riducono. Inoltre ricordo che il taglio della spesa pubblica in Italia ha contribuito alla minore crescita rispetto ad altri Paesi, come emerge chiaramente dalle analisi di Marco Fortis pubblicate dal vostro giornale. L'obiettivo principale della revisione della spesa è l'eliminazione degli sprechi per usare le risorse in modo produttivo. Insomma, è importante soprattutto spendere bene. Da quest'anno, con la nuova legge di bilancio, la spending review diventa di fatto permanente perché sarà possibile rimettere in discussione scelte fatte in passato e ridurre il trascinamento inerziale della spesa come accadeva in passato».
L'altra grande incognita, oltre alla crescita, sono gli eventuali ulteriori margini di flessibilità rispetto alle regole europee. L'Italia tenterà di prolungare nel tempo l'applicazione della clausola delle riforme e di quella degli investimenti?
«La Commissione ha confermato, come prevedono le regole, che ragionerà in termini di saldi strutturali. Visto che c'è meno crescita, un saldo strutturale dato può corrispondere a diversi saldi nominali. Mi aspetto che si tenga conto di questo. Sulle clausole, la posizione di Bruxelles è che la flessibilità si usa una volta sola, però sul Patto di Stabilità c'è una discussione in corso. Io vorrei ribadire che il difetto fondamentale del Patto è che costringe a scelte di breve periodo. Sarei favorevole a una revisione che desse più importanza al medio e lungo periodo perché le politiche economiche si sviluppano e producono effetti in un arco temporale più lungo di un singolo anno. Il principio di flessibilità in cambio di riforme va reso più trasparente e non oggetto di negoziato anno per anno, altrimenti a sua volta genera incertezza».
Intanto c'è anche da progettare Casa Italia...
«Casa Italia è un progetto molto ambizioso, pluriennale, che si basa su una strategia di lungo termine di messa in sicurezza del Paese contro le catastrofi naturali. È anche l'opportunità per riorganizzare risorse che già ci sono, sia come agevolazioni fiscali sia come capitoli di spesa».
Quale accoglienza prevede a Bruxelles?
«La Commissione ha ribadito recentemente che le spese per emergenze e ricostruzioni sono già coperte dalle norme sugli eventi eccezionali, e quindi sono escluse dal computo ai fini del deficit. Quanto alla componente prevenzione, dipende dall'atteggiamento sugli investimenti in generale, per il quale sollecitiamo un cambiamento di prospettiva».
Non le sembra un modo un po' troppo timido per affrontare il problema? In fondo si tratta di investimenti dei quali alla fine beneficerà l'intera Europa.
«Il problema non sono soltanto gli investimenti in prevenzione. Si tratta di ridefinire le priorità dell'Europa, che devono essere sempre più gli investimenti per creare occupazione e inclusione sociale. L'Italia ha posto queste priorità nel suo semestre di presidenza nel 2014; ora il consenso è cresciuto e questi temi riconquistano spazio. Ma la battaglia è politica e il nostro non mi sembra un approccio timido. Se ne è parlato anche durante il recente vertice italo-tedesco».
Mario Draghi ha di nuovo ribadito che i tassi negativi resteranno tali a lungo. Ma non sono più soltanto i tedeschi a nutrire dubbi su questa strategia, visto che i risultati, a differenza che negli Stati Uniti, stentano a venire. Nel frattempo i sistemi finanziari, a cominciare da quello tedesco, stanno soffrendo pesantemente. Non converrebbe cominciare a invertire la rotta?
«Premesso che il Qe negli Stati Uniti è partito ben prima, in Europa impatta su una regione economica molto diversificata, tanto che l'effetto in Germania è diverso che in Italia, basti vedere il differenziale dei rendimenti. Per questo è indispensabile che accanto alla politica monetaria, che si avvale anche dei tassi negativi, si sviluppino politiche strutturali che favoriscono la convergenza onde rendere meno aspre le diversità».
Converrà però che il Qe della Fed ha prodotto ben altri effetti sull'economia Usa. Anche le banche italiane stanno soffrendo parecchio.
«Il Qe della Bce è molto giovane, e ci vuole tempo perché dispieghi i benefici attesi, a cominciare da un'inflazione più elevata. Ed è vero che i tassi negativi mettono in difficoltà banche, assicurazioni e investitori istituzionali, ma ciò andrebbe vissuto anche come stimolo all'industria finanziaria a cambiare i business model».
Qualche mese fa lei disse: «Senza condivisione del rischio questo euro non ha senso». La condivisione del rischio non è arrivata, anzi sembra assai lontana. Dunque l'euro non ha senso?
«La condivisione del rischio è sicuramente un elemento chiave per favorire la convergenza tra Paesi, ma bisogna procedere parallelamente alla riduzione del rischio, un'esigenza avvertita dai Paesi con economie in condizioni migliori. Le due cose si rafforzano a vicenda. E l'euro tanto più avrà senso quanto più in prospettiva queste due attitudini si svilupperanno di pari passo».
Viste le dichiarazioni del ministro Wolfgang Schäuble, non sembra che i tedeschi vogliano condividere più che tanto.
«Purtroppo in Germania è già tempo di elezioni, ciò non faciliterà il completamento dell'Unione bancaria. Quantomeno non in tempi brevi».
Di recente lei ha bloccato il tentativo tedesco di introdurre un tetto ai titoli di Stato posseduti dalle banche. A che punto è il confronto?
«La partita è per il momento sospesa, come il dibattito sulla garanzia comune per i depositi bancari».
Tra un mese sarà un anno dall'applicazione del bail-in alle quattro banche fallite. Visto ciò che ne è seguito che cosa vorrebbe cambiare della procedura se potesse?
«Allora non avevamo alternative. È un sistema profondamente diverso da quello precedente e le istituzioni europee non hanno valutato fino in fondo le conseguenze. Un periodo di transizione più lungo sarebbe stato utile, ma purtroppo molte implicazioni di una scelta regolatoria non sono riconoscibili a priori».