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Conferimento del premio internazionale Primo Levi

11/04/1999

Genova, 11 aprile 1999

CONFERIMENTO DEL PREMIO INTERNAZIONALE PRIMO LEVI

"Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns

"Da allora, a un'ora incerta,
torna quell'agonia:
e finché l'orrenda storia non sia detta
"brucia entro il cuore mio"

Samuel T. Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner

Questi versi di Coleridge che Primo Levi volle anteporre al suo ultimo libro autobiografico "I sommersi e i salvati", pubblicato un anno prima di morire, hanno segnato, come il rintocco di una campana, ogni suo giorno dal ritorno dall'agonia di Auschwitz.

Desidero esprimere la mia gratitudine e la mia emozione. La gratitudine per questo premio internazionale, che avete voluto attribuirmi; ma soprattutto l'emozione per i ricordi, le pene, le speranze che il nome di Primo Levi evoca.

Tutti noi abbiamo nella nostra vita un dovere di testimonianza. Testimonianza che diventa la malta della storia e della tradizione, che costruisce quel tessuto di costume e di cultura che impregna i giorni e il secolo di una nazione.

Ma testimoniare non è facile. Testimoniare vuol dire essere dentro e fuori al tempo stesso: partecipare per battere con il cuore dell'evento ma allo stesso tempo usare lo sguardo chiaro e lucido di chi osserva le forze che plasmano il corso degli eventi.

E testimoniare diventa impresa quasi sovrumana quando il partecipare diventa sofferenza fisica e tormento spirituale, quando l'esser coinvolti in una vicenda di orrore quale mai il mondo conobbe rischia di annientare lo spirito e di snervare l'intelletto.

La grandezza di Primo Levi fu nell'essere testimone. Testimone fino in fondo, fino al trionfo dello spirito sull'abbrutimento, della speranza sull'orrore, della nobiltà sulla bassezza. I recenti, frequenti richiami dell'Olocausto, il ritorno nella cronaca del problema del risarcimento, o della responsabilità morale di quanti collaborarono alla gestione dei Lager, lo stesso successo del bellissimo film di Roberto Benigni, ci fanno capire come, a più di mezzo secolo di distanza, la memoria di quella piaga della storia non sia svanita. Ed è giusto che sia così.

Quella che Primo Levi chiamava la "deriva della memoria" non deve abbandonare il ricordo dell'Olocausto. Questo è il primo insegnamento che con la sua testimonianza Egli ci ha voluto dare.

Ma la grande lezione di Primo Levi fu nell'elevatezza di quel ricordo. Un ricordo non certo rarefatto, anzi preciso e forte. Un ricordo che vola con la potenza dello spirito, con l'intento, appassionato e spassionato assieme, di risvegliare le coscienze.

Primo Levi si è fatto scrittore senza nulla concedere alla rabbia, alla vendetta, trattenendo le sue stesse emozioni. Si è imposto di essere narratore degli eventi tragici che lo hanno colpito, perché il lettore senta che l'indignazione suscitata dalla descrizione di quella violenza cieca è sua propria e non indotta dal narratore.

Fondere assieme la memoria dell'evento vissuto, la cronaca e la storia, la sofferenza e il distacco, la pena che brucia e l'obiettività che preserva la coscienza dall'annientamento. "Fatti non foste a viver come bruti..." scriveva il Poeta. Ma una brutalità che sconfinava nella negazione della ragione e nella mostruosità dell'azione non impedì a Primo Levi di "seguir virtute e conoscenza", anche nei giorni più bui.

"Perché tutto questo non ritorni": si potrebbe così sintetizzare il pensiero di Levi a proposito della memoria viva della sua terribile vicenda.

Un ricordo come una lapide, come il quadro di Guernica, come la lunghissima lastra di marmo che a Washington reca incisi i nomi delle migliaia di morti nel Vietnam.

Non odio ma monito, non vendetta ma consapevolezza. Primo Levi ha attratto l'ascoltatore nella sfera dell'orrore e del dolore per fare in modo che quella atrocità sia irripetibile.

"Shemà" - "ascolta" - è il titolo di una poesia di Primo Levi: forse un testamento spirituale, un invito a fare della nostra vita una testimonianza chiara, inequivocabile, comprensibile a tutti perché "chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto".

"Shemà", è la prima parola della preghiera fondamentale dell'ebraismo, in cui si afferma l'unità di Dio. Ma, oggi, ascoltiamo noi Primo Levi:

"...Meditate che questo è stato:
"vi comando queste parole.
"Scolpitele nel vostro cuore
"stando in casa andando per via,
"coricandovi, alzandovi:
"ripetetele ai vostri figli...".

Il pensiero di Levi mi riporta, con sentimento di profonda riconoscenza, agli insegnamenti che ebbi da Guido Calogero. Il richiamo continuo alla coscienza, criterio estremo della verità, era richiamo al senso di responsabilità dell'individuo, al dovere di lottare per la libertà - per sé e per gli altri, per cambiare la realtà. La filosofia morale che negli anni Trenta Calogero inculcava in noi giovani è una morale concreta, di attuazione della libertà: dentro di noi, prima ancora che nella società. É un messaggio che assume connotazioni di tipo religioso, è dottrina civile che affranca l'uomo dall'opportunismo e lo incardina sul primato della coscienza, del dialogo, della tolleranza.

Oggi la piaga dell'Olocausto non è chiusa; ma non è più motivo di diffidenza verso la nazione dove l'Olocausto si consumò.

Non è una categoria nazionale ma una categoria dello spirito, se pure di uno spirito sanguinario e impazzito.

E la Germania, allora unita, poi divisa e poi di nuovo unita, ha fatto, assieme ad altri dieci Paesi del Vecchio continente, un grande passo verso l'unificazione, acconsentendo ad annegare la propria identità monetaria - una identità di cui era giustamente orgogliosa e gelosa - nel crogiolo della moneta unica.

Credo non sia ozioso domandarci che cosa penserebbe oggi di questo evento quel grande europeo che fu Primo Levi. Grande europeo e non solo grande italiano. Grande europeo perché la sua opera e la sua vicenda toccano valori universali e si inscrivono nel solco della migliore cultura europea; e grande europeo perché amava le lingue e le culture del nostro continente, per il "lungo studio e il grande amore" che profuse nella conoscenza delle letterature degli altri Paesi.

Porci questa domanda ci costringe a un esercizio difficile, ma forse salutare. Ci costringe a entrare nel rapporto che Primo Levi aveva con la Germania.

Dopo la pubblicazione di "Se questo è un uomo", Levi ricevette moltissime lettere, e delle risposte a queste lettere fece poi un'appendice al suo libro. Molte di queste lettere battevano su un interrogativo assillante: "Perché i tedeschi crearono i Lager?", "Perché la popolazione tedesca non si oppose?".

A queste domande Levi non riusciva onestamente a dar sempre risposte. E forse non le voleva dare. Levi afferma di non voler capire l'Olocausto. Poiché capirlo, comprenderlo - nel significato etimologico della parola - è farlo entrare dentro di noi, "è quasi giustificare". E invece l'Olocausto deve rimanere fuori di noi, deve rimanere una categoria luciferina dello spirito le cui motivazioni devono essere solo respinte.

Ma allo stesso tempo Levi non si capacitava. Tanti, fuori dai Lager, non potevano non sapere. E, quando "Se questo è un uomo" fu tradotto in tedesco, Primo Levi vide in quella iniziativa quasi un modo per guardare in faccia i tedeschi e chieder loro "Perché"?

La cura appassionata e meticolosa che mise nel rivedere la traduzione, la sua fitta corrispondenza col traduttore, e poi le lettere che ricevette da lettori tedeschi: da tutto trapela che Primo Levi non aveva chiuso i conti con la Germania, o almeno con la generazione che l'abitava nei tempi di Auschwitz e di Dachau.

Li avrebbe chiusi oggi? Penso di sì, e proprio per le ragioni che ho richiamato.

Se lo scopo di Primo Levi, nel racconto distaccato e struggente insieme del "Se questo è un uomo", era quello di dire: "Vi racconto quel che è successo perché mai più succeda", ebbene, son sicuro che avrebbe accolto con entusiasmo un progetto che dice ai popoli europei: "Mai più la guerra". Il sogno degli europeisti - il pensiero corre a Monnet, Schumann, Einaudi, De Gasperi, Adenauer - era ed è quello di un'Europa unita. Un sogno nato dalle macerie di un'Europa dilaniata da una guerra orrenda, fiaccata da nazionalismi e da antagonismi che affondavano le radici in secoli di amare divisioni.

Questo sogno è andato trasformandosi in realtà, con la creazione di una Unione europea che ha sostituito il cruento confronto delle politiche di potenza con la benefica emulazione degli scambi commerciali e dell'integrazione economica.

Di questo sogno in via di avveramento l'Unione monetaria è la tappa più recente, la più importante sinora. La creazione di una moneta unica in Europa è un grande fatto politico e non solo economico. Viene annullata la sovranità nazionale sulle politiche monetarie e del cambio. Il riferimento di questa sovranità a uno spazio più vasto sposta il punto di riferimento degli interessi nazionali. Gli attriti legati a potenziali egemonie di fatto di un Paese vengono dissolti in un quadro istituzionale europeo incentrato sulla integrazione.

La moneta non è solo strumento di misura, di scambio, di conservazione di valore; è anche simbolo, bandiera, che unisce con parità di diritti tutti coloro che quella moneta adottano.

L'intuizione profonda dei grandi politici del dopoguerra vedeva l'integrazione dei loro Paesi nell'Europa come la via maestra per sopire gli antagonismi latenti che avevano segnato per secoli la storia del nostro continente. Questa integrazione è un gioco a somma positiva per l'Europa: consente guadagni di efficienza economica e di stabilità politica. In una prospettiva storica, elimina il conflitto, rimuove le tentazioni egemoniche, esalta la cooperazione.

Certo, l'interesse nazionale continua a esistere anche con la moneta unica. La rinuncia alla sovranità monetaria non rimuove i bisogni cui l'esercizio di quella sovranità intendeva rispondere. Il progetto della moneta unica non si esaurisce con l'attribuzione della sovranità monetaria a una Banca centrale europea. Con questa attribuzione si è reso tecnicamente possibile l'euro.

Ma perché l'euro costituisca un fattore di sviluppo, di collaborazione - e quindi di pace - è necessario fare ben di più. É necessario creare strumenti, luoghi e tempi della collaborazione istituzionale fra i Paesi dell'euro. Proprio perché la comunanza della moneta è un fattore possente di aggregazione fra i popoli, essa deve essere accompagnata, per non creare sbilanciamenti, da una spinta altrettanto possente verso un approccio comune negli altri campi della politica economica e della politica tout court.

"Alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini degli uomini", scriveva Vincenzo Cuoco agli inizi dell'Ottocento. O forse, per meglio dire, alle idee degli uomini, che muovono la storia, deve seguire la laboriosa sedimentazione degli ordinamenti, che cola il metallo fuso dell'idea creativa nello stampo delle istituzioni.

Non ci sono precedenti storici a quel che abbiamo fatto. Mai nella storia un gran numero di Paesi ha volontariamente rinunciato alle proprie monete, ne ha scelto una nuova e per tutti eguale, e ne ha affidato la gestione a un organo comune e indipendente. Il resto, è tutto ancora da inventare.

I Paesi dell'euro si accorgono - ma i padri fondatori della moneta unica già lo sapevano - che debbono ora rendere sempre più strette le maglie dell'integrazione, che debbono creare i modi e gli istituti di un approccio unitario alla politica di bilancio - già lo si fa con il Patto di stabilità - ma anche alle politiche strutturali, dalle riforme del mercato del lavoro a quella della spesa sociale, dalle regole di governo di banche e imprese alla lotta alla disoccupazione. E questo per l'aspetto economico, nella piena consapevolezza che l'unione, l'integrazione istituzionale e di fatto, debbono estendersi agli altri aspetti del convivere di popoli uniti da legami di tradizioni, di civiltà e di storia, ancor più stretti dei vincoli della geografia.

Non è un caso che la Seconda guerra mondiale abbia seguito la Grande depressione. Non è un caso che il nazismo sia sorto sulle ceneri dell'iperinflazione e sulle umiliazioni e sulle ristrettezze imposte dalle riparazioni di guerra.

Economia e politica si intrecciano in un rapporto di causa ed effetto che diviene presto circolare, in cui le interazioni possono, nel bene e nel male, portare la spirale verso un circolo virtuoso o verso un circolo vizioso. Di per sé, la moneta unica non risolve i problemi dell'Europa. Ma la moneta unica, assortita degli ordinamenti appropriati, può e deve divenire una tappa fondamentale verso un futuro di maggior benessere e di più profonda concordia fra le nazioni europee.

È la lotta alla disoccupazione la prima nuova frontiera dell'agire comunitario. Per troppi anni l'economia europea si è trovata, a ogni svolta del ciclo, con un tasso di disoccupazione più alto di quello precedente. Da troppi anni il posto di lavoro è diventato il miraggio dei figli e l'angustia dei genitori, che vedono la nuova generazione crescere nella sfiducia, vedono il contratto sociale e la convivenza civile degradarsi nella diffidenza verso un mondo del lavoro lontano e quasi ostile.

L'Europa deve essere solidale, e la prima solidarietà ha da essere fra chi lavora e chi non lavora. Per questo la lotta alla disoccupazione si salda alla riforma dello Stato sociale. Una riforma che mantenga quella rete di sicurezza che è un vanto della società europea. Ma che riveda quel sistema complesso di incentivi e disincentivi che negli anni si è andato sedimentando nella spesa sociale, sotto le pressioni casuali di rapporti di forza e non secondo un disegno sistematico.

Non vi è contrapposizione fra efficienza e solidarietà. La migliore tradizione europea ha saputo volgere l'imperativo etico della solidarietà in una convenienza per il buon funzionamento dell'economia. L'equità di schemi di protezione rettamente intesi favorisce la serenità e l'impegno.

La sfida, in tutti i campi dell'integrazione europea, è quella di disegnare istituzioni che permettano di raccogliere i vantaggi del localismo e quelli del centralismo, attraverso l'adesione piena al principio di sussidiarietà e il rispetto delle diversità come arricchimento di tutti.

Abbiamo visto come, in Irlanda e nella terra Basca, il raggiungimento del traguardo dell'euro abbia coinciso con il sorgere della speranza di una pace che riesca a spezzare le terribili spirali di violenza di origine separatista. Anche in Italia dal 2 maggio 1998, quando il Consiglio europeo ha deciso la creazione dell'euro con la partecipazione anche della lira, si respira un'atmosfera di maggiore unità nazionale.

Una prova in più di come questa tappa dell'integrazione europea sia molto di più di una riforma monetaria; di come vada a toccare i nervi vivi e i gangli nascosti della convivenza civile, proiettando problemi e pulsioni in uno spazio più grande, in quella cittadinanza d'Europa che ognuno va faticosamente scoprendo nei cuori, negli istinti, nelle tradizioni.

Più volte Primo Levi mise in guardia dal credere che gli orrori della guerra - e soprattutto gli orrori della "violenza inutile" - potessero non più tornare. Più volte ci disse che la sua testimonianza voleva essere un baluardo contro un riflusso degli orrori che aveva vissuto.

Oggi sappiamo che questo pessimismo della ragione non era infondato.

Con la tragedia esplosa nei Balcani sono ricomparse le imposizioni disumane della pulizia etnica, delle deportazioni di massa. E ogni immagine di quella tragedia ci riporta alla domanda di fondo, alla meditazione drammatica che Primo Levi ci ha proposto: se questo è un uomo; se questa è una donna.

Le nostre coscienze hanno ripulsione per la guerra; ma ancor più fortemente hanno ripugnanza per la violenza contro i deboli, contro gli inermi, contro gli innocenti.

Di qui la nostra angoscia.

Non possiamo sopportare il riapparire di crudeltà, che almeno nel nostro continente ritenevamo bandite per sempre. Non possiamo tollerare il dispregio della dignità dell'uomo.

La profonda avversione all'uso della forza non può giungere fino a permettere che si perpetrino nuovi crimini contro l'umanità.

Certo non rinunceremo mai a confidare nel dialogo per impedire, per arrestare la violenza. Ma questa fede nel dialogo, che è costitutiva del nostro modo d'essere, non scalfisce la ferma determinazione ad agire anche con le armi perché le crudeltà cessino, perché la dignità umana torni ad essere rispettata.

E con il convincimento sofferto della necessità del ricorso alla forza, sentiamo in noi consolidarsi la consapevolezza che per allontanare per sempre questo male dall'Europa, dobbiamo ampliare lo spazio politico europeo sino a farlo coincidere con il perimetro dei confini geografici.

L'anno prossimo si apre un nuovo secolo, che vorremmo fosse il secolo dell'Europa, della pace.

Sull'anno Duemila Primo Levi scrisse, cinque anni prima di morire, una breve poesia:

"Mille più mille: un traguardo
"un filo di lana bianco, non più così lontano,
"o forse nero o rosso. Chi lo potrebbe dire?
"...

Già, chiediamoci: chi lo potrebbe dire? Ma è proprio l'esempio della sua vita grande e intensa a suggerirci la risposta.

"É in noi", come disse Luigi Einaudi nel 1946, la capacità di fare di quel traguardo lo slancio verso un'Europa più unita e più giusta.

Quell'Europa che Primo Levi volle nei fatti e negli scritti, unendo come forse nessuno la capacità di soffrire insieme con la capacità di analizzare, la condanna del male insieme con l'aspirazione al bene, la resistenza alla prepotenza annullatrice di Auschwitz insieme con l'indistruttibile fiducia nella vita e negli uomini.