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Conferimento Laurea Honoris Causa St. John's University

19/07/1998

19 LUGLIO 1998

ST. JOHN'S UNIVERSITY

CONFERIMENTO LAUREA HONORIS CAUSA

Desidero esprimere il mio ringraziamento al Board della St. John's University per il conferimento di questa Laurea che mi onora dato il prestigio della St. John's, una fra le università più importanti degli Stati Uniti.

Questo riconoscimento coincide con la ricorrenza del venticinquesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale del Presidente di questo Ateneo, Padre Donald J. Harrington, al quale vanno il mio augurio e le mie felicitazioni vivissime.

Penso sia dovere delle persone della mia generazione di cercare, per quanto è possibile, di lasciare ai giovani testimonianza di quello che uno ha vissuto e di spiegare le ragioni di fondo del proprio impegno nella vita civile.

Nell'affrontare questi temi mi viene in mente un documento di famiglia a me caro, il testamento spirituale che la mia nonna paterna lasciò ai figli, ai nipoti. Risale alla seconda metà degli anni Venti. Sono cinque cartelle scritte su due fogli protocollo. Quel testamento inizia con queste parole: "Siate religiosi ed onesti", e si svolge lungo di esse richiamando vicende familiari per trarne motivi di incoraggiamento, di stimolo, di insegnamento, con una nobiltà e sincerità di accenti che attestano la profondità dei sentimenti, dei valori professati.

Questo fu l'ambiente della mia infanzia.

E la famiglia, quella in cui sono nato, quella che poi con mia moglie abbiamo formato, è stata ed è il riferimento centrale della mia vita.

La mia educazione si svolse, per tutte le scuole medie e quelle secondarie, in un istituto gestito da religiosi. Seguì un periodo di quattro anni alla Scuola Normale di Pisa, dove prevaleva la cultura laica. Tra questi due diversi momenti non avvertii, non avverto, contrapposizioni nella norma base di ogni comportamento. In entrambe le due esperienze ebbi un insegnamento costante: il rispetto della persona umana, delle libertà e dei diritti altrui; principio fondamentale per il vivere civile, per la vita di una collettività.

Il riconoscimento agli "altri", a tutti gli "altri", degli stessi diritti di cui godiamo e che per noi rivendichiamo, è la base di ogni convivenza, è il presupposto di ogni Stato di diritto. Nella pratica di questo principio, etica religiosa ed etica laica si incontrano e si confondono.

L'intreccio di queste esperienze scolastiche e universitarie mi ha preparato, mi ha educato a diventare cittadino, uomo libero, a ricercare in se stessi, nella propria coscienza, il metro della valutazione dei propri comportamenti. Questo complesso di valori umani mi è stato di sostegno nei momenti più difficili della mia vita. Il primo fu quello che colse molti di noi giovani nel settembre del 1943; eravamo sotto le armi, chiamati ad obbedire, e ci trovammo di colpo abbandonati, senza più alcun ordine, orientamento, costretti a ricercare nella propria coscienza quello che si doveva fare.

Altro aspetto fondamentale della mia formazione è stato il "dialogo". Nella scuola, nell'università sono stato abituato a dialogare sia con i maestri, da loro sollecitato con l'incalzare dei "perché", sia con i compagni di studi. In particolare, nella vita di collegio universitario della Normale, al di là del pur impegnativo susseguirsi di ore di lezioni, ci trovavamo spesso a discutere fra di noi, nei seminari, nelle stesse occasioni di svago.

Quella formazione è rimasta in me anche nelle varie esperienze di lavoro. Della prima di esse, due anni di insegnamento al Liceo di Livorno, alcuni dei miei allievi di allora ancora ricordano, che parlando di Dante o leggendo poesie del Petrarca o traducendo qualche classico latino, sconfinavo di frequente in riferimenti ai valori civili. Mi comportavo cioè in modo analogo a come i miei maestri si erano comportati con me: a considerare l'insegnamento ben più che la mera trasmissione di conoscenze specifiche.

Dopo la scuola e l'università, dopo quattro anni di servizio militare, dopo due anni di insegnamento, ho trascorso quarantasette anni della mia vita lavorativa alla Banca d'Italia. Ho più volte sintetizzato il modo di lavorare, il modo d'essere della Banca d'Italia in questa constatazione: non ho mai ricevuto, né credo di aver mai rivolto ad altri, un invito, una sollecitazione, diretta o indiretta, a comportamenti deontologicamente non corretti.

Nei lunghi anni, ad esempio che ho passato nel Servizio Studi, mai mi è stato chiesto di fare una ricerca imponendomene l'esito; c'è sempre stata piena libertà d'analisi, di interpretazione, di conclusioni. Quando osserviamo le vicende "anomale" che hanno travagliato la vita del mio Paese, la vita di tante istituzioni, e notiamo che la Banca d'Italia non è mai stata coinvolta, toccata da fatti che potessero costituire disdoro per l'istituzione o per i singoli, la risposta la si può trovare proprio in questo modo di essere della Banca, il modo di essere che vi ho trovato quando vi sono entrato, dopo la guerra, il modo di essere che vi ho lasciato pochi anni fa.

Ho portato con me questo modo di essere anche nel periodo passato a Palazzo Chigi, quando in un passaggio particolarmente difficile della vita politica dell'Italia, il Capo dello Stato ritenne di chiamare un tecnico, il governatore della Banca d'Italia, a presiedere un governo di "transizione". Quell'anno, dalla primavera del 1993 e quella del 1994, è stato per me, e credo per tutti coloro che hanno fatto parte di quel governo, un'esperienza straordinaria. Non mi riferisco ai risultati, che sta agli altri giudicare, ma al modo di governare. Un gruppo di persone, in parte politici e in parte provenienti dalle professioni, divenuti ministri di quel governo, in pochi giorni si trovarono uniti in un uguale modo di comportarsi, di interpretare la loro funzione: gestire il potere, non occuparlo. Non abbiamo perseguito interessi particolari; abbiamo avuto come nostro punto di riferimento solo le istituzioni, il Parlamento, il Capo dello Stato.

Non ho modificato quel modo di essere nella mia presente esperienza governativa. Sono, mi considero, un uomo delle istituzioni. E le istituzioni, siano esse pubbliche o private, sono forme organizzate della convivenza civile. Servono a curare gli interessi collettivi. Hanno, devono avere, un confine: quello di non conculcare mai le libertà dei singoli, in particolare la libertà di coscienza. Se poi etica vuol dire anche costume delle genti, c'è un codice di comportamento, un "costume" delle istituzioni che non contraddice il "costume" dei singoli appartenenti; e questo a sua volta si rispecchia nelle istituzioni stesse. Anche questo posso testimoniare: si può, si deve vivere l'etica dell'istituzione e l'etica individuale senza conflitti, senza contraddizioni.

In sintesi, secondo me l'importante è "sentire il senso" delle istituzioni e dello Stato, seguire nella propria condotta quelle norme che si richiamano ai valori fondamentali della persona umana.

Ho ritenuto di richiamare questi tratti della mia esperienza di lavoro, di vita, come segno di apprezzamento e di ringraziamento per il riconoscimento che avete voluto attribuirmi.

Voi, giovani di oggi, vi trovate ad affrontare problemi analoghi in una realtà libera dalle drammatiche vicende che dominarono la gioventù della mia generazione. Ma i problemi di fronte a Voi non sono meno difficili. Vi impegnano e vi impegneranno in scelte. E le scelte si soffrono, direi non possono non essere sofferte. Perché maturino, esse macerano, ma fortificano le nostre coscienze. E le coscienze si formano quotidianamente, in un esercizio continuo di disciplina interna, di capacità di avvertire, di praticare, di rispettare i valori umani. Il ricordo più bello che ho di un antico compagno di studi furono le parole, anzi la parola, che in punto di morte lasciò come eredità ai propri figli, "la dignità". E la dignità, il rispetto di se stessi, è il confine ultimo da non superare mai nel compiere le proprie scelte.

Sull'importanza del saper scegliere per i singoli come per le nazioni, valgano le parole di Papa Giovanni Paolo II: "All'avvicinarsi del terzo millennio, l'Europa si trova di fronte a una nuova tappa della sua storia. E' importante che oggi essa prenda coscienza più chiara di ciò che è, di ciò che è conservato nella sua memoria collettiva di un passato lungo e tumultuoso, per non subire il suo destino come prodotto del caso, ma come costruire liberamente il suo futuro".

Il vostro futuro si costruisce sulle radici del passato, che è il passato della nostra civiltà, della nostra cultura, delle nostre istituzioni, fondamento e presidio del vivere dei cittadini, come singoli e come collettività.

L'ordinamento che ogni società si dà deve essere volto ad assicurare che i diritti di libertà civile e politica e i diritti di giustizia sociale ed economica possano essere pienamente esercitati e si traducano in realtà per tutti.

Diritti di libertà e diritti di giustizia sono, nel loro esercizio, strettamente interconnessi. La libertà di parola, di culto, di associazione sono, nei fatti, incomplete senza la libertà dal bisogno.