Intervista del ministro Giorgetti al Sole 24 ore: “L'Italia cresce, le imprese sono forti. Su Mes e Patto di stabilità trattativa aperta”
Intervista a cura di Gianni Trovati
Dopo i turbamenti di giovedì è arrivata una giornata molto positiva, in cui il Parlamento ci ha dato fiducia su un programma di finanza pubblica prudente che però non frena la crescita, mentre lo stato dell'economia italiana ancora una volta si rivela migliore di quanto prevedevano tutti gli osservatori, internazionali e italiani». Per il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti l'approdo all'Eurogruppo di Stoccolma in cui si avvia il negoziato sulle proposte normative della Commissione Ue per il nuovo Patto di stabilità e crescita avviene con qualche ora di ritardo rispetto al programma, ma con uno stato d'animo decisamente migliore di quello che si poteva temere dopo l'inciampo del mancato voto alla Camera sullo scostamento. Il cambio di scenario, più che dal frettoloso ritorno in Parlamento per rimediare alle assenze del giorno prima, è offerto dalla stima preliminare dell'Istat che per i primi tre mesi dell'anno indica una crescita del Pil allo 0,5%, lontanissima dai timori di recessione tecnica circolati fino a qualche settimana fa, e proietta una dinamica annuale verso il +1,8 per cento: dunque a un ritmo quasi doppio rispetto a quello fissato nel Documento di economia e finanza appena approvato dalle Camere insieme al mini-scostamento che finanzierà il decreto legge di lunedì con il nuovo taglio al cuneo fiscale e il rilancio dei fringe benefits per i lavoratori dipendenti con figli.
Le cifre dell'Istituto di statistica sono importanti per l'immediato, perché per Giorgetti «prospettano margini di manovra per nuovi interventi in autunno contro quella che speriamo sia la coda dell'effetto inflazione sui beni energetici e sui prezzi in generale»; ma danno una grossa mano anche nelle complesse partite internazionali che l'Italia sta giocando in queste settimane, perché presentano un'economia nettamente più robusta rispetto a quella disegnata dalle analisi di tutti gli osservatori. «Il punto - sostiene il titolare dei conti italiani - è che viene sistematicamente sottovalutatala forza e la capacità di competere mostrata dalla rete di piccole e medie imprese che rappresentano il cuore del nostro tessuto economico».
Di fronte a una proiezione ufficiale del Pil a +1,8% nel 2023, non è un problema aver fissato nel Documento di economia e finanza un obiettivo dl crescita decisamente più basso? Qualche decimale in più non avrebbe aiutato a mostrare margini di bilancio più solidi anche agli occhi della commissione Ue e degli analisti?
Le stime dell'Istat confermano che il nostro atteggiamento nella costruzione del programma di finanza pubblica è prudente e che tuttavia l'ambizione di fare meglio delle stime è realistica, come abbiamo ripetuto più volte e come abbiamo scritto anche nel Def. C'è poi da considerare il fatto che il quadro macroeconomico del Def deve ottenere la valutazione dell'Ufficio parlamentare di bilancio.
Una dinamica del genere, però, promette di creare nuovi spazi del bilancio in autunno.
È chiaro che se nei prossimi due trimestri continuiamo ad avere risultati su questa linea si allentano le pressioni sui saldi di finanza pubblica, e si creano margini per nuovi interventi in autunno con cui sostenere imprese e famiglie alle prese con l'inflazione. La speranza è che arrivati a questo punto ci sia da gestire solo la coda di una fiammata inflattiva ora in contrazione, che però impatta su tutti i prezzi dei beni di consumo e non solo su quelli energetici. In ogni caso un quadro del genere permette di respingere anche le obiezioni di chi ha criticato le ultime misure in quanto temporanee e troppo limitate. Il nostro approccio è stato appunto prudente e calibrato, e ci può permettere ora di arrivare a fine anno garantendo nuove coperture al sistema ed evitando contraccolpi bruschi sulla crescita.
Insomma, non si pente di aver dovuto fissare una crescita solo all'1%, che impone dl prospettare una forte restrizione fiscale per i prossimi anni.
No, perché indicare obiettivi più alti avrebbe determinato un contrasto stridente con le stime di tutti i previsori, dal Fondo monetario a scendere. Il punto è che in queste analisi si sottovaluta sempre la forza e la competitività delle nostre piccole e medie imprese. Come ho detto in tutti gli incontri internazionali, anche alle agenzie di rating, chi vuole davvero capire il significato della parola resilienza, così tanto evocata negli ultimi tempi, deve guardare all'economia italiana.
Proprio i rating sollevano nuove incognite sulle prospettive dei conti italiani. A maggio si esprimeranno Fitch e Moody's, e quest'ultima già colloca i nostri BTp all'ultimo scalino fra i titoli sicuri, e con outlook negativo. Teme un downgrade, con le conseguenze che potrebbe avere?
Io dico solo che l'economia italiana, e quindi i saldi di finanza pubblica, sono in condizioni migliori di quel che si pensava in autunno, quando sono state fatte le ultime valutazioni. Quindi non vedo ragioni oggettive per un cambio di opinione al ribasso.
Le prospettive dei conti pubblici incrociano però ora le nuove regole sulla governance economica che sta discutendo con gli altri ministri finanziari giusto in queste ore. Nella proposta della commissione non c'è la divisione dei Paesi in tre classi di rischio, che l'Italia giudicava sbagliata, ma non c'è nemmeno una corsia preferenziale per gli investimenti, tema che invece è al centro della proposta italiana. Prima di tutto: ci sono ancora margini di trattativa su questo punto?
Penso proprio che spazi di trattativa ci siano perché la richiesta di un trattamento diversificato per gli investimenti ha una ragione logica inoppugnabile. Se la spesa in conto capitale per la transizione energetica e digitale crea sviluppo, come certifica per tabulas il Pnrr, e se fra gli obiettivi del Patto di stabilità e crescita c'è appunto anche la crescita, è logico che le regole fiscali europee trattino questi investimenti in modo diverso da quello che si può applicare a voci meno produttive come per esempio il pubblico impiego o le pensioni.
Per avere successo in un negoziato, però, oltre alle buone ragioni servono alleati, che al momento mancano soprattutto dalle parti dei Paesi nordici che spingono in direzione contraria.
Ogni Paese ha le proprie aspettative ma il quadro non è così monolitico. Pensiamo a un altro tema su cui mi aspetto qualche risultato concreto, cioè le spese perla difesa e per gli impegni internazionali di sostegno all'Ucraina. Sulla richiesta di esclusione di queste spese dai vincoli generali di bilancio la condivisione è stata ampia, perché non si può chiedere ai Paesi di contribuire alla difesa dei diritti e della libertà dell'Ucraina e poi "sanzionare" la spesa indispensabile per farlo. Un impianto del genere non è solo illogico, ma è anche sbagliato sul piano pratico.
In ogni caso c'è chi ritiene che il meccanismo dei piani di rientro pluriennali produca un commissariamento di fatto della politica economica degli Stati membri. Vede questo rischio?
La prima proposta della commissione è stata molto contestata proprio perché non garantiva la ownership degli Stati. Proprio per questa ragione ora le bozze parlano di una traiettoria tecnica di numeri e previsioni su cui si apre uno spazio di negoziato politico. La titolarità dei singoli Paesi sulla propria politica economica però va chiarita meglio anche perché è garantita costituzionalmente, non solo in Italia, e non può essere superata da un'intesa pattizia.
Anche perché sul piano pratico molto dipende da come vengono definite le stime su cui si basano i vincoli di bilancio.
Infatti c'è un grosso problema di trasparenza sui dati di fondo per l'analisi della sostenibilità del debito, e questo aspetto è stato contestato da quasi tutti i Paesi.
Ma c'è la possibilità che non si arrivi a un'intesa in tempo per applicare la riforma dal prossimo anno? In questo caso, un ritorno in campo del vecchio Patto di stabilità non sarebbe una pessima notizia per l'Italia?
C'è un forte incentivo a chiudere perché se non si raggiunge l'accordo i mercati non crederanno al ritorno di regole che sono oramai irrealistiche e che sono state scarsamente rispettate. Con le vecchie norme tornerebbe in vigore la regola di 1/20 di riduzione del debito e non sarebbe una buona notizia. Ma voglio sottolineare che il nostro Def rispetta in pieno quella che viene definita fiscal guidance, cioè l'interpretazione della commissione del Patto di stabilità sospeso a causa del Covid fino alla fine dell'anno.
E se l'intesa non portasse a un sistema di deroghe ampio per gli investimenti, ci sarebbe bisogno di una revisione più profonda del Pnrr?
Certo, se la spesa a debito viene pesata integralmente nei vincoli sulla finanza pubblica è evidente che noi abbiamo un dovere ancora più forte di concentrarla su quegli interventi che creano davvero uno sviluppo e un volano per l'economia. Questo vale per il Pnrr ma soprattutto per il Piano nazionale complementare, perché è vero che due terzi dei fondi del Pnrr sono prestiti ma i tassi sono più bassi perché si tratta di debito europeo. Il fondo complementare è invece alimentato da debito italiano, con tassi italiani: e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti non ha alcuna intenzione di emettere BTp al 4 o al 5% per finanziare la costruzione di stadi. Questo deve essere chiaro a tutti, come è stato chiaro, e apprezzato in Europa. Si tratta in pratica di avviare un riesame, una spending review anche per gli investimenti, e non ci vedo proprio nulla di male.
Ma questa spending degli investimenti non si sta sviluppando in tempi un po' troppo lunghi?
Non bisogna dimenticare che rispetto agli altri Paesi la nostra scelta di prendere anche tutta la quota a prestito rende l'impegno molto più intenso e articolato, senza contare il peso di aspetti burocratici non banali. Ma il ministro Raffaele Fitto sta lavorando intensamente e confido in un buon esito dell'operazione.
Ci sono però aspetti sostanziali su cui nessuna regola di bilancio può intervenire, a partire da una dinamica demografica che nel medio termine genera pressioni enormi al rialzo sul debito pubblico. Come si affronta, con margini fiscali risicati?
Prima di tutto, appunto, con gli investimenti, che hanno esattamente la caratteristica di manifestare i propri effetti maggiori nel medio e lungo termine. Dopo di che proprio per questa ragione ho parlato dell'esigenza di eliminare gli attuali disincentivi alla natalità. È ovvio che la situazione attuale non dipende solo, e nemmeno principalmente, dagli aspetti fiscali, ma non è possibile trascurare il fatto che a parità di reddito imponibile chi ha figli ha disponibilità minori ma aliquote uguali a quelle degli altri. La questione demografica è cruciale perché non esiste età pensionabile e non esiste riforma della previdenza che sia compatibile con gli attuali tassi di fecondità in Italia.
La spinta politica per un nuovo intervento sulle pensioni, però, resta intensa, così come cresce l'esigenza di interventi su altri settori come il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, scoperti negli anni dell'inflazione alle stelle. Come si affronta tutto questo senza nuovo deficit?
I conti per la manovra si faranno con la Nadef, e in tempi di volatilità elevatissima come quelli che viviamo da qualche anno a questa parte lo scenario cambia rapidamente. Il tema va affrontato proprio con quell'approccio prudente che dicevamo, e che fin qui ci ha permesso sempre di intervenire. Dopo di che, naturalmente, la politica è selezione delle priorità.
L'altro corno del negoziato europeo è il Mes, su cui gli appelli all'Italia si stanno intensificando e stanno salendo di livello come mostra la pioggia di dichiarazioni di ieri dalla presidente della Bce Christine Lagarde al commissario all'Economia Paolo Gentiloni. Non pensa che una ratifica parlamentare a questo punto sia indispensabile?
Mi rendo conto dell'attesa del passaggio parlamentare ma va ricordato che il Parlamento si è già espresso, e ci ha chiesto di tornare con una proposta complessiva che guardi anche allo sviluppo dell'Unione bancaria e ad altri aspetti fondamentali, come il rafforzamento di un sistema di garanzie europeo perla promozione degli investimenti privati che potrebbe rappresentare un altro potente strumento di sviluppo in grado anche di superare il Mes, perché avrebbe un utilizzo più ampio e svincolato dallo stigma che accompagna il fondo Salva-Stati.
Da Bruxelles si ribatte però che lo stallo italiano sul Mes impedisce anche di andare avanti nella discussione sull'Unione bancaria.
Temo sia il contrario. L'Unione bancaria si è fermata perché alcuni non vogliono che i bond governativi italiani abbiano lo stesso trattamento delle emissioni di altri Paesi nella valutazione degli asset degli istituti di credito. Nella nostra ottica se vogliamo davvero rafforzare l'architettura europea il completamento dell'unione bancaria è indispensabile.
Come si spiega allora le pressioni così intense per il "sì" italiano?
È ovvio che il Mes è lo strumento più a portata di mano per la creazione del backstop da attivare in caso di grandi crisi bancarie, che rappresenta l'unica parte davvero nuova della riforma. Ma occorre arrivare a un'intesa che sia coerente con le richieste rivolte al governo dal Parlamento.