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Intervento del Ministro Tria alla presentazione del Rapporto annuale Fondazione NordEst 2018

Università di Padova - 15/11/2018

Grazie Presidente Bono per questo invito,

grazie anche all'amico Prof. Carraro, con cui ho avuto numerose occasioni di confrontarmi ed approfondire temi a noi cari e che si riflettono in questo eccellente Rapporto della Fondazione Nord-Est, rapporto nel quale ho trovato ricchi spunti di riflessione.

Il primo punto che vorrei affrontare è proprio quello del cambio di paradigma che illustrava il Prof. Carraro.

Ripensare il modo di essere competitivi. Questa sfida è collegata ad una presa di coscienza più ampia, che riguarda il nostro modo di inquadrare i problemi che affrontiamo, in particolare per chi è chiamato ad assumere decisioni di policies che impattano sul quotidiano delle imprese e delle persone.

Siamo soliti considerare le transizioni come dei momenti ben definiti, dei momenti di passaggio fra un modello economico e un altro, tra un equilibrio e l'altro. Ma il mondo in cui viviamo oggi non è più così ben delineato.

In un contesto globale connotato dall'incertezza, dobbiamo affrontare contemporaneamente molteplici transizioni e queste transizioni sono i percorsi delle trasformazioni di cui parla il rapporto Nord-est.

La transizione tecnologica e i suoi risvolti sul tessuto produttivo, la transizione climatica ed energetica e i suoi risvolti ecologici, la transizione demografica e i suoi risvolti sociali.

Possiamo affrontare queste transizioni una a una, a compartimenti stagni? A questa domanda troviamo molte risposte importanti nel Rapporto, che condivido pienamente. Credo che intervenire solo per correggere o riparare non ci aiuterà, come sistema paese, a garantire ai nostri cittadini un livello di benessere soddisfacente. Non ci aiuterà perché da un lato non riusciamo a cogliere pienamente le opportunità che ci possono essere, e dall'altro non mettiamo in atto meccanismi che ci proteggano dagli effetti negativi di queste transizioni.

È invece essenziale capire che iI governare oggi significa governare le transizioni. Il compito della politica non è infatti solo quello di indicare il futuro e ciò che deve essere cambiato del presente, ma governare questo passaggio, questo insieme di transizioni.

Questa constatazione si inserisce in un contesto globale portatore di numerose incertezze.

Negli ultimi duecento anni, cioè dai primi decenni dell'800, abbiamo visto prima una crescita economica e dell'importanza relativa dell'Occidente rispetto all'Oriente, crescita di peso fino alla metà dello scorso secolo, e in seguito un lento declino della sua importanza relativa a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo. Una evoluzione rispecchiata dal contemporaneo declino iniziale dell'Oriente e in seguito, soprattutto negli ultimi 30 anni, una nuova crescita sancita dalla forza economica e commerciale della Cina e di altri giganti asiatici. Il peso economico relativo dell'Asia sta per tornare ai livelli di due secoli fa, naturalmente in un mondo completamente diverso e con una popolazione mondiale che si avvia verso gli 8 miliardi.

Ma ciò che la Storia ci insegna è che questi movimenti hanno preso forma anche attraverso periodi di conflitti e guerre devastanti.

Mentre appare inevitabile che vi siano questi grandi movimenti, il nostro sforzo oggi è anche quello di gestirli garantendo che la concorrenza leale prevalga sempre sul conflitto.

Il boom economico che ha reso la Cina uno degli attori fondamentali nell’economia mondiale, pur determinato da capacità produttiva e tecnologie inizialmente sviluppate all'esterno, ha provocato la progressiva scomparsa di una parte rilevante del tessuto produttivo europeo e più in generale occidentale. Parlo in particolare delle imprese ad alta intensità di lavoro e scarso valore aggiunto.

Ed oggi il futuro si gioca anche sulla sfida competitiva per il predominio tecnologico che è il vero centro del contrasto tra Cina e Stati Uniti, con l'Europa nella parte di osservatrice.

Vediamo oggi quanto le tensioni commerciali a livello Globale incidono sull'andamento economico in Europa, e in particolar modo in Italia.

Il Rapporto della Fondazione evidenzia bene che il rallentamento degli scambi internazionali può essere un fenomeno preoccupante per le molte aziende produttrici di beni e servizi, la cui causa non va cercata solo negli inasprimenti delle politiche commerciali effettivamente avvenuti, ma anche nell'incertezza che governa gli equilibri tra le grandi economie che circondano l'intera Unione europea, quali gli USA e la Cina.

L'attuale fase di rallentamento economico che si sta confermando dall'assenza di crescita del PIL nel terzo trimestre del 2018, va inquadrata, anche per questo motivo, in un indebolimento generalizzato e di lungo periodo dell'euro-zona.

Oggi i dati che provengono ad esempio dalla Germania non sono incoraggianti e i riflessi suII' economia italiana, che è strettamente interdipendente da quella tedesca, preoccupano.

Paradossalmente le previsioni di autunno della Commissione Europea che indicano un rallentamento dell’economia italiana, indicano anche che al contempo si restringe il nostro gap di crescita con i principali paesi europei, e ciò conferma che è necessario avere uno sguardo più ampio e che il problema della crescita è un problema europeo che dovrebbe essere affrontato insieme, con politiche europee, e non in modo separato e conflittuale.

L'Europa non ci sembra consapevole della situazione e in ogni caso appare incapace di adottare politiche macroeconomiche di stabilizzazione e di contrasto al rallentamento economico a livello europeo. Ma tornerò più tardi su questo tema.

E' certo che per il nostro paese è preoccupante affrontare questa prospettiva di forte rallentamento dell'economia quando solo alcune parti della nostra economia, quale il Nord-est, hanno già raggiunto livelli di produttività e di ricchezza comparabili a quelli pre-crisi del 2008.

Per concludere su questo primo punto, siamo davanti ad una doppia sfida, quella di gestire molteplici transizioni in un contesto di forte incertezza e rallentamento economico.

Rispetto a questa costatazione, ho ribadito più volte che un forte impegno sul lato degli investimenti pubblici costituisce una delle leve più importanti in una manovra che punta alla crescita.

E questo è il secondo punto che vorrei trattare nel mio intervento.

I dati sull'andamento della componente di spesa in investimenti fissi lordi mostrano come negli ultimi 10 anni questi si siano ridotti in Italia di oltre il 30%. Ma dobbiamo analizzare con attenzione quali siano le conseguenze di questa caduta degli Investimenti.

Questa caduta impatta ovviamente la domanda aggregata ma dobbiamo anche constatare che si sono progressivamente azzerati gli investimenti netti. In altri termini, si è arrestata la formazione di stock di capitale netto e ciò ha implicazioni pesanti sulla capacità produttiva e sul tasso di crescita del prodotto potenziale. (Dati nazionali).

È da notare in particolare che siamo stati testimoni della diminuzione dello stock di capitale netto nel settore manifatturiero e nel settore delle costruzioni. Non si tratta solo quindi di un problema di output gap congiunturale, e di agire sugli investimenti come componente della domanda aggregata.

Quale sia il tasso di investimento ottimale in una economia avanzata e con calo demografico, in particolare in Italia, non è facile dirlo.

Tuttavia è chiaro che non è possibile immaginare un aumento dell'occupazione e al tempo stesso un aumento della produttività del lavoro, necessario ad un aumento dei redditi, con bassa o nulla crescita dello stock di capitale.

In queste condizioni l'unica prospettiva rischia di essere quella di un declino continuo verso bassi salari e sempre minore produttività, nel pieno di una trasformazione tecnologica che in questa fase sembra privilegiare investimenti fortemente labour saving per i settori che utilizzano le nuove tecnologie, anche e soprattutto nei servizi, e che richiederebbe una forte compensazione dal lato della creazione di nuovi prodotti e servizi.

Ma ciò è possibile se vi sono prospettive di domanda. Inoltre la creazione di nuovi lavori connessi alle nuove tecnologie, alcune delle quali possono anche essere caratterizzate da un minor rapporto capitale/lavoro, sono conseguenti a trasformazioni strutturali delle economie che richiedono forti investimenti infrastrutturali e di rete, così come in ricerca e istruzione. La conclusione che la questione della stagnazione degli investimenti e quella della produttività sono le due facce della stessa medaglia.

Puntare su maggiori investimenti per rilanciare la crescita richiede di rispondere a due domande. Su che cosa investire, e come.

Anche qui il Rapporto presentato oggi offre importanti spunti. Da parte mia vorrei apportare due considerazioni.

La prima è che dobbiamo puntare a rilanciare opere diffuse sui territori che rispondano ai bisogni specifici in termini di infrastrutture fisiche e di conoscenza. Non bisogna tornare a costruire cattedrali nel deserto, ma evitare la desertificazione. Investire su infrastrutture di rete e di conoscenza significa dotare i territori, tutti i territori italiani, di una base su cui costruire la nuova competitività di cui parla il Rapporto.

Mi ha colpito in particolare nel Rapporto il fatto che la disponibilità di un capitale umano formato ad affrontare questo nuovo contesto nel Nord-est non manca, e lo troviamo nella sua rete universitaria di eccellenza. Ma questo capitale si dilegua perché non trova poi opportunità lavorative nel territorio stesso, ed è costretto ad andarsene.

Questa costatazione va messa in parallelo con un chiaro divario tra l'offerta e la domanda di professioni tecniche altamente specializzate, che corrisponde proprio alla sfida della transizione tecnologica che anche il Nord-est sta affrontando.

La carenza di una offerta formativa dedicata a formare giovani su professioni tecniche altamente specializzate, come lo sono i Technical colleges nel mondo anglo-sassone, è una delle sfide sulle quali investimenti pubblici e privati possono convergere per dotare i territori di un capitale umano formato e resiliente. Questo capitale umano è capace di reintrodursi velocemente nel mercato del lavoro grazie alla vicinanza tra il mondo della formazione e quello delle imprese che caratterizza questo modello dei Technical colleges.

La seconda considerazione sul tema degli investimenti pubblici è che la loro caduta nel corso degli anni ha avuto come "danno collaterale" il crescente indebolimento della capacità amministrativa pubblica di sviluppare e portare a termini progetti che supportino una strategia di investimento.

Su questo aspetto, ricordo il disegno inserito nella Legge di Bilancio, di istituire una Centrale di Progettazione che avrà il compito di offrire alle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche che lo richiedano, in una logica quindi di sussidiarietà, servizi di assistenza tecnica per assicurare standard di qualità per la preparazione, la valutazione e la esecuzione, anche come centrale di committenza, di programmi e progetti.

Con questo investimento in capacità progettuale per le pubbliche amministrazioni si aprono ulteriori opportunità a livello europeo, dove il Gap di investimenti si stima a circa 400 miliardi di euro.

Ma governare le transizioni non significa solo puntare ad Investimenti in reti e capitale umano. Significa anche garantire un sistema di sicurezza per coloro che sono momentaneamente colpiti dalle fasi di riconversione del tessuto produttivo che sono generate proprio dalla transizione tecnologica.

Su questo punto bisogna evitare le astrazioni teoriche e guardare in faccia la realtà. La cosiddetta “distruzione creatrice" dell'innovazione prevede che essa provochi un impatto così forte su alcuni settori dell'economia da determinarne l'evoluzione profonda o la scomparsa. Ciò accade quando sorge un nuovo mercato o viene introdotto un metodo di produzione innovativo.

Il cambiamento tecnologico, l'apertura di nuovi mercati, distrugge e al contempo crea valore nei grandi sistemi. Il vero problema è che distruzione e creazione non avvengono nella stessa dimensione geografica e temporale.

Solo affrontando al contempo i problemi della competitività sul suo versante tecnologico ed infrastrutturale, e sul suo versante sociale e di capitale umano, riusciamo a governare il processo di transizione e spingiamo la crescita. Ciò è particolarmente vero oggi che viviamo in cui il progresso tecnologico e l'innovazione non sono soltanto molto più rapidi del passato ma soprattutto è sempre più veloce la loro diffusione nei mercati globali.

Vorrei richiamare il fatto che il processo di globalizzazione, cioè di progressiva apertura dei mercati, nella seconda metà dello scorso secolo si è accompagnato, ed è stato reso possibile in occidente, dal contemporaneo affermarsi delle reti di protezione sociale, del Welfare State. Se ci dimentichiamo di questo, non possiamo stupirci oggi del crescere di sentimenti contrari al libero mercato e favorevoli al protezionismo.

Vorrei anche ricordare come alla globalizzazione che noi conosciamo, che riguarda ancora prevalentemente lo scambio di beni, la rivoluzione digitale e delle comunicazioni farà seguire in modo crescente la globalizzazione dei servizi, cioè del lavoro che verrà scambiato attraverso le reti, con un impatto sul mercato del lavoro e sociale ben più vasto.

Questo ragionamento è valido per l'Italia, ma lo è anche per l'Europa, che è l'oggetto del terzo punto che vorrei discutere qui.

A quasi vent'anni dall'introduzione dell'euro, possiamo considerare che l'effetto di convergenza delle economie della zona euro non è stato realizzato. Anzi, possiamo concordare che le politiche fiscali in atto abbiano persino alimentato le divergenze tra le diverse economie che hanno deciso di entrare nell'Euro.

Vedo principalmente due problemi, nell'attuale configurazione delle regole fiscali europee, che potranno essere anche oggetto futuro della riflessione su un loro possibile cambiamento, ma di cui dobbiamo tener conto oggi nell'ambito del dialogo con la Commissione sul nostro Bilancio.

Il primo problema è che il quadro fiscale europeo attuale soffre di un approccio pro-ciclico, essendo troppo lasco nei periodi di crescita e troppo rigido nei periodi di rallentamento della crescita, nella pretesa che le politiche espansive si possono adottare solo quando un paese è già immerso in una recessione, cioè quando è troppo tardi.

Il secondo problema, forse meno considerato finora ma sicuramente importante, è che alcuni indicatori che determinano in modo preponderante le regole attuali soffrono di un livello di incertezza e di imprevedibilità elevati. Mi riferisco all'indicatore di indebitamento netto strutturale che difficilmente si può considerare uno strumento di policy affidabile se preso isolatamente, ma che incide in modo sostanziale sulla percezione che si ha dello stato di salute di una economia.

Mi riferisco anche al fatto che quando l'Europa si è posta gli obiettivi 2020 per diventare l'area più competitive del mondo, in realtà è rimasta lontana dai suoi obiettivi e soprattutto ha trascurato gli obiettivi fondamentali di coesione e inclusione sociale non adottando alcuno degli strumenti necessari a livello europeo. Soprattutto, voglio ricordare che tutte le transizioni e le trasformazioni di cui abbiamo parlato e di cui si parla nel Rapporto richiedono una quantità enorme di investimenti, pubblici e privati, e da questo punto di vista l'Europa non ha dato una risposta sufficiente per un'azione complessiva spingendo laddove lo spazio di bilancio lo consentiva o con azioni a livello comunitario ad aumentare gli investimenti pubblici.

Qua non si tratta di dare la colpa all'Europa. L'Europa siamo noi, e lo sarà ancora di più se dialoghiamo con convinzione su quale sia la giusta strategia per governare le multiple transizioni a cui ho accennato all'inizio del mio intervento, e sulle quali la nostra manovra offre una risposta sicuramente diversa da quelle passate, ma non per questo meno solida o meno credibile.

Guardiamo anche attentamente a quanto fatto finora sul lato dei Fondi europei. Gli interventi promossi in oltre 30 anni delle politiche dell'UE a favore dei territori non hanno prodotto i risultati attesi in termini di riduzione degli squilibri economici.

L'evidenza dimostra inoltre che la politica europea di coesione è più efficace quando si allinea alle esigenze e agli obiettivi generali di ogni singolo Stato, allineamento che non è stato conseguito con successo in Italia finora, dove si è registrato il più alto grado di dispersione delle spese per settore.

Anche su questo aspetto credo che una accresciuta capacità progettuale delle amministrazioni sulla quale stiamo puntando come Governo genererà effetti maggiormente positivi rispetto al passato.

Questi tre elementi di riflessione cui ho accennato qui, ovvero il bisogno di governare le transizioni, il ruolo degli Investimenti pubblici, e la necessità di ripensare le politiche fiscali e di coesione europee per creare maggiore convergenza, alimentano il mio operato in seno al Governo e il dialogo cooperativo con la Commissione. E concludo con una ultima riflessione a riguardo.

Con la risposta inviata alla Commissione Europea l'altro ieri, il Governo ha ribadito la sua posizione in merito alla Strategia che intende perseguire per rilanciare la crescita in Italia.

Da una parte si intende proseguire il dialogo con la Commissione, ma dall’altra dobbiamo anche lavorare completamente a rendere efficaci le misure che abbiamo disegnato per supportare la nostra strategia.

In apertura di uno dei capitoli del vostro rapporto c’è una frase che vorrei sottolineare. “Il progresso economico (materiale) si fonda e si alimenta su un insieme di fattori intangibili (immateriali): fiducia e coesione sociale. Senza di questi non c’è sviluppo equilibrato.”

Sebbene quel capitolo indaghi il sentimento di fiducia dei cittadini del "nord-est", credo che questa frase sia adatta anche al ruolo dello Stato.

Credo che lo Stato debba giocare un ruolo proattivo nel generare fiducia attraverso non solo una presenza ragionata e lungimirante in termini di investimenti pubblici, ma anche una credibilità operativa nel trasformare risorse finanziarie in crescita e benessere.

Se il Governo delle transizioni (del cambiamento) può essere il nuovo modo di interpretare il ruolo dello Stato oggi, credo che il Territorio, prima che la singola politica settoriale, sia il "metro di riferimento" per concretizzare la strategia. Perché in un mondo così mutevole ed incerto, è il territorio a poter essere resiliente nel suo insieme, e non un singolo settore di attività.

Credibilità e fiducia vanno di pari passo. La fiducia senza credibilità è mero ottimismo. Ed è su questo che il Governo deve concentrarsi sin da oggi, puntando ad una logica integrativa di tutte le parti del suo programma. Mi riferisco in particolare all'insieme delle riforme strutturali che accompagnano le misure di sostegno e di rilancio della crescita, che dobbiamo portare avanti con determinazione, e forse anche ampliare rispetto a quanto deciso nel programma di Governo.

Quest'ultimo punto deve mirare a generare fiducia negli operatori e negli investitori, e consentire quindi che Investimenti Pubblici ed Investimenti Privati riprendano insieme un percorso di crescita.

Questi sono i dati che dobbiamo vedere crescere per primi nell'anno che viene, perché questi sono i veri dati sui quali ci giochiamo la partita della credibilità in Italia e in Europa. Grazie.

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