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Replica sul DPEF 1997-99 - Camera dei Deputati

16/07/1996

Roma - Camera dei deputati
Seduta pomeridiana
16 luglio 1996

Documento di programmazione economico-finanziaria 1997/1998
Elementi per la replica finale del ministro Ciampi

Signor Presidente, Onorevoli deputati,

nel documento di programmazione economico finanziaria che vi accingete a votare attraverso una risoluzione che lo integra e gli imprime un valore giuridico vincolante, vi è il tracciato fondamentale delle ultime vicende della nostra economia e della nostra finanza pubblica. E vi è, soprattutto, il tracciato del loro futuro. Questo futuro è ancora largamente nelle nostre mani. Non vi è nulla di inevitabile, nulla di predeterminato, nulla di fatalistico. Sono nella nostra disponibilità gli strumenti per abbassare l’inflazione, per difendere la stabilità della lira, per continuare nella riduzione progressiva del disavanzo, per favorire la discesa dei tassi, per invertire la tendenza negativa dell’occupazione.
Voglio dire che di fronte alle tendenze della congiuntura e di fronte agli oneri che gravano pesantemente sul nostro sviluppo noi abbiamo proposto una politica ben precisa. Il Governo è assolutamente risoluto in questa politica fatta di equilibri complessivi, che non può essere giudicata per scorci o per fasi, ma nella sua interezza, nel suo ritmo, e, soprattutto, nella sua coerenza rispetto agli obbiettivi finali.

Questa politica ha due quadri di riferimento permanenti e indisponibili.

Un quadro di riferimento esterno: ed è l’adesione alla costituzione economica europea che si è progressivamente precisata dal Trattato di Maastricht fino all’ultimo Consiglio europeo di Firenze dello scorso giugno.

Un quadro di riferimento interno: ed è l’adesione alla costituzione economica italiana che ha retto il Paese dall’accordo del 23 luglio 1993 ad oggi.

Questi due quadri costituzionali di riferimento hanno in comune due caratteristiche: essi impegnano il Paese in uno sforzo continuo di adeguamento e di attuazione. Sono tutto fuori che impegni esauritisi con la loro firma. Le politiche dei governi si salvano o si perdono nella fedeltà a quei quadri di riferimento fra di loro fortemente interdipendenti. Ogni omissione nella loro attuazione è pagata, in termini di impoverimento del sistema economico, molto di più di qualsiasi costo per il loro perseguimento.

Poche settimane fa, adottando il DPEF, abbiamo istituito il Comitato per l’introduzione nel nostro Paese della nuova moneta, l’EURO. È stato anche questo un modo per dichiarare che la nostra politica non arretra di un solo passo di fronte all’obbiettivo di partecipare alla fase iniziale dell’Unione monetaria, dal 1° gennaio 1999.

1. Come è noto, il nuovo Governo, non appena formato, ha dovuto prendere atto del mutamento intervenuto tra la fine del 1995 e i primi mesi del corrente anno nel quadro di riferimento macroeconomico. Inoltre, un accurato esame dell’andamento dei conti pubblici ha messo in evidenza, sempre per il 1996, un peggioramento rispetto alle previsioni, che si ripercuote sugli anni successivi. Tutto ciò ha costretto ad una riconsiderazione dell’intero quadro della finanza pubblica e dei conti del settore statale in particolare.

È emerso che per ridurre il fabbisogno per il 1997 al 4,5 per cento del PIL, come indicato nel precedente DPEF, occorrono interventi correttivi rispetto al cosiddetto "tendenziale" di circa 51.000 miliardi, compresa la manovra correttiva di giugno, in luogo dei 27.000 originariamente previsti.

Il decreto legge n. 323 del 1996, che ora la Camera si appresta a discutere in seconda lettura, dopo il costruttivo e serrato confronto avvenuto in Senato, costituisce la prima tappa per il raggiungimento degli obiettivi quantitativi di finanza pubblica per il 1996 e il 1997.

È importante sottolineare come:

Governo e Parlamento abbiano immediatamente aggredito le tendenze devianti dagli obbiettivi;

- la manovra di riduzione del fabbisogno per il 1996 sia pari a circa lo 0,8 per cento del PIL; correzione rilevante in quanto concentrata in un semestre;

- l’aggiustamento avvenga in un contesto particolarmente difficile, determinato dalla flessione della crescita economica e sia costituito per due terzi da riduzioni di spesa e per un terzo da entrate;

- nessuno dei provvedimenti abbia effetti di aumento dei prezzi;

- le misure di correzione abbiano per la maggior parte carattere di fondo: si traducono infatti in una riduzione del fabbisogno tendenziale di circa 19.000 miliardi sia per il 1997 sia per il 1998.

2. Vi è una larga convergenza di tutte le forze politiche sulla necessità di conseguire l’obiettivo di un rapporto tra disavanzo e prodotto interno lordo pari al 3 per cento, che è uno dei cinque parametri del trattato di Maastricht.

Il DPEF 1997/99 assume rilevanza particolare, considerato che il 1997 è l’anno di riferimento per il rispetto dei parametri di Maastricht.

Nel contesto di valutazione dei comportamenti e dell’evoluzione del nucleo forte dei sistemi economici comunitari, nucleo del quale l’Italia fa parte a pieno titolo, lo sforzo di convergenza assume per il nostro Paese un valore autonomo: si tratta infatti di riconquistare un grado di libertà nella adozione delle politiche di bilancio, andato perduto, o quanto meno fortemente indebolitosi, in ragione degli squilibri strutturali della finanza pubblica. E questo grado di libertà è particolarmente necessario in un sistema come il nostro che deve riorientare profondamente la politica economica verso lo sviluppo e l’occupazione.

Gli obbiettivi programmatici proposti per il triennio 1997/99 si fondano su un’ipotesi di crescita reale del PIL del 2 per cento nel 1997, del 2,8 per cento nel 1998 e del 2,9 per cento nel 1999. L’obiettivo di inflazione che il Governo propone a se stesso e a tutti gli operatori è del 2,5 per cento nel 1997, del 2 per cento nel 1998 e sempre del 2 per cento nel 1999; sono obbiettivi che assicurano il rispetto di un parametro del Trattato di Maastricht e che facilitano il raggiungimento del parametro relativo ai tassi di interesse.

Ricordo che per la valutazione che verrà condotta nella primavera del 1998 il Trattato richiede che il disavanzo pubblico non superi il 3 per cento; aggiunge che si terrà conto della tendenza, cioè dell’approssimarsi a quel limite lungo una discesa sostanziale e continua.

Ricordo ancora che il nostro bilancio pubblico presenta da alcuni anni un avanzo primario; esso raggiungerà nel 1996 il 4,5 per cento del prodotto interno lordo e nel 1997 il 5,4 per cento.

Se si intendesse contenere il disavanzo delle pubbliche amministrazioni entro il 3 per cento del PIL già nel 1997, la correzione, includendo la manovra del 19 giugno scorso, dovrebbe superare i 70.000 miliardi (oltre il 3,5 del PIL).

Nella presente condizione della congiuntura europea e italiana, una tale correzione - adottata ora - potrebbe innescare una involuzione ciclica.

Da queste considerazioni discende la decisione presa dal Governo di astenersi dal proporla e di presentare una sequenza diversa. È noto che secondo l’opinione prevalente in tutta Europa, la presente debolezza dell’economia è ritenuta una fase transitoria alla quale dovrebbe seguire una ripresa dell’espansione già sul finire del corrente anno. Ciò ha suggerito di prevedere nel DPEF per la fine dell’autunno un momento di valutazione; se come auspichiamo l’economia europea, e con essa l’economia italiana, mostrerà chiari segni di ripresa, sarà possibile considerare - sulla base anche dell’andamento dei mercati finanziari e in particolare dell’evoluzione dei tassi d’interesse - l’opportunità di uno sforzo aggiuntivo che riduca ulteriormente il fabbisogno pubblico per il 1997.

È d’altra parte evidente che l’eventuale protrarsi oltre il corrente anno dell’attuale debolezza congiunturale in Europa costituirebbe problema grave per tutti i paesi della Comunità.

3. Data l’evoluzione tendenziale delle entrate e delle spese al netto degli interessi, il raggiungimento dell’obiettivo del 4,5 del PIL richiede con la prossima legge finanziaria un intervento correttivo pari a 32.400 miliardi.

Circa un terzo dell’azione di riequilibrio dei conti pubblici si realizzerà con aumenti del gettito tributario che si baseranno principalmente sull’aumento delle basi imponibili; è da rilevare che la pressione tributaria tenderebbe a ridursi se si lasciasse operare senza interventi l’evoluzione tendenziale delle entrate.

Sul lato della spesa, la correzione è indicata in circa 21.000 miliardi, interamente concentrati nelle spese correnti che al netto degli interessi dovrebbero aumentare solo dell’1 per cento rispetto al 1996. Ciò implica una drastica opera di contenimento nei confronti di tutti quei settori e programmi di spesa corrente i cui fattori evolutivi non sono determinati da obbligazioni giuridiche già perfezionate. A quest’ultimo proposito l’evoluzione di voci, quali gli stipendi e le pensioni, presenta incrementi sensibilmente più elevati: i primi quale conseguenza dei nuovi contratti, le seconde per adempimenti di legge.

L’azione di contenimento delle spese correnti discrezionali si rivolgerà innanzi tutto alle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, con un’azione analitica di monitoraggio che intende agire in profondità. Occorre, inoltre, che tale azione trovi un corrispondente sforzo, da esercitarsi nell’ambito delle proprie autonomie di bilancio, da parte degli amministratori regionali e locali.

Tuttavia, l’azione di risanamento non può escludere il ricorso a misure di contenimento delle altre voci di spesa in aggiunta a quelle sopra indicate: come si è esplicitamente affermato nel DPEF non possono esservi riserve di principio per alcuno dei comparti di spesa.

Il Governo proprio in questi giorni sta assolvendo ad una parte degli impegni programmatici assunti, presentando al Parlamento i disegni di legge che riformano e semplificano l’azione amministrativa e la struttura del bilancio dello Stato.

Il quadro che viene delineandosi di riforme profonde nei moduli operativi delle amministrazioni pubbliche richiede per la sua realizzazione un costante, fermo, prolungato indirizzo politico legislativo.

Qualche considerazione, infine, sulla spesa per interessi: la questione dei tassi di interesse costituisce la variabile cruciale della politica di bilancio e di tutta la politica economica del Paese.

L’onere complessivo degli interessi nel bilancio statale è indicato nel DPEF in 191.600 miliardi di lire per il 1997, rispetto a 189.400 miliardi nel 1996.

Il lieve aumento della spesa per interessi, in presenza di un debito aumentato in misura maggiore, implica un calo dei tassi di interesse.

A questo proposito desidero riaffermare in questa sede, in modo solenne, che il Governo non intende modificare l’aliquota del 12,50 per cento sugli interessi dei titoli di stato.

La strategia in tappe successive che abbiamo delineato ha visto, in fase di avvio, il profilarsi di un "premio" da parte dei mercati finanziari: eventualità su cui fortemente contiamo ma che potrebbe rapidamente dissolversi se venisse meno la valutazione di credibilità, di coerenza, di stabilità che ha circondato l’inizio dell’azione del Governo.

La logica sottostante la linea di politica economica presentata con il DPEF è che la riduzione del disavanzo statale e l’abbattimento dell’inflazione, accrescendo la fiducia dei mercati nella nostra situazione, producano una flessione dei tassi di interesse, che potrebbe essere più accentuata di quella che è stata prudenzialmente considerata nel Documento.

Si confida in particolare in una riduzione del differenziale dei tassi di interesse rispetto ai Paesi europei con economie più stabili.

Il verificarsi di questa tendenza dei tassi è legata sia al realizzarsi della politica economica del governo (miglioramento dei conti pubblici, calo dell’inflazione, privatizzazioni), sia all’auspicata stabilità di questa maggioranza politica. Se ciò avverrà, ne conseguiranno, ad un tempo, sia l’alleggerimento del carico degli interessi sul bilancio dello Stato, e quindi un importante contributo alla riduzione del fabbisogno, sia la ripresa degli investimenti privati e il contenimento dei costi; verrà così dato un forte impulso al riaffermarsi di una fase economica espansiva dell’intera economia.

È questo il processo virtuoso che questo Governo conta di avviare; l’unica via per il ritorno ad un’economia sana.

4. Vorrei ora fare qualche osservazione sul significato, sull’importanza che il Governo attribuisce all’indicazione di un tasso programmato di inflazione adeguatamente "ambizioso" ma realistico.

Al tasso di inflazione programmato il Governo e il Parlamento affidano il ruolo di parametro-guida: non ci si limita all’effetto annuncio, sulla cui forza è giusto esprimere dubbi. Il parametro guida significa che il Governo propone un obiettivo, e chiede a tutti un impegno a che esso sia conseguito; si impegna esso per primo a operare per conseguirlo. Ai produttori e agli intermediari commerciali chiede di agire attraverso comportamenti che diano significato forte e positivo alla concorrenza. Chiede ad esempio che si trasferiscano sui prezzi le riduzioni di costi derivanti dall’apprezzamento del cambio. Chiede che nessuno sia tentato dalla rovinosa via del cercare in prezzi più alti un compenso a temporanee flessioni della domanda.

Ai lavoratori chiede che essi si confermino nei comportamenti seguiti nei primi tre anni di vita dell’accordo del luglio 1993, avvalendosi per la difesa della quota dei loro salari sul reddito di tutti gli strumenti, le procedure che lo stesso accordo prevede.

Il Governo dal canto suo rafforzerà la propria azione diretta e indiretta. Nella manovra correttiva di bilancio abbiamo portato e porteremo la massima attenzione a evitare impatti inflazionistici.

La sorveglianza dei prezzi diverrà incisiva. I criteri indicati per la determinazione delle tariffe sono strettamente coerenti con l’inflazione programmata e tengono altresì conto dei progressi della produttività.

La discesa in atto del tasso d’inflazione costituisce per tutti un incoraggiamento: è importante che la fiducia non si incrini, che la discesa continui. Occorre dimostrare che non c’è nessuno zoccolo duro da rompere, che la concorrenza opera sul sistema sia produttivo sia distributivo, che i benefici degli aumenti di produttività e del progresso tecnico si trasferiscono su tutti, attraverso prezzi più contenuti e migliore qualità dei prodotti.

Solo se questi comportamenti prevarranno, la nave Italia potrà navigare nelle acque tranquille dei bassi tassi di interesse.

Ho detto di recente in Parlamento, e voglio ribadirlo perché è guida della mia azione nel Governo, che abbattimento dell’inflazione e lotta alla disoccupazione non sono due momenti distinti, non hanno luogo in tempi successivi. Nella nuova realtà economica i due temi si intrecciano in spirali che possono essere virtuose o perverse; il legame, in ambedue i sensi, sono i tassi di interesse.

I mercati finanziari sono pronti a premiare; e nei confronti dell’Italia sono solo in attesa di poter dispiegare in pieno la propria disponibilità alla fiducia: conoscono le potenzialità del nostro Paese; dubitano solo della nostra coesione, della nostra costanza.

Lo hanno dimostrato nelle prime settimane di vita di questo Governo con il calo degli interessi di colpo interrottosi in questi ultimi giorni. Una nuova discesa è vista come altamente possibile. È un premio che dobbiamo, tutti noi, guadagnarci. È un premio per ottenere il quale basta poco, bastano comportamenti che siano riconoscibilmente coerenti con gli obiettivi posti, che rassicurino della volontà diffusa di perseguirli.
Ma i mercati sono anche pronti a punire. Nei mercati si usa dire che i tassi d’interesse non stanno mai fermi: o salgono o scendono. Sarebbe un vero disastro per tutti noi se per una sfiducia nella possibilità che l’Italia realizzi gli obbiettivi che annuncia, riprendesse forza e momento il circolo vizioso tra inflazione, alti tassi d’interesse, debolezza del cambio.

Non è dato a noi, come a nessun altro, dopo le trasformazioni che il mondo finanziario ha avuto negli ultimi anni, sottrarci alla disciplina dei mercati, evitarne il giudizio: il premio o la punizione.

Ovunque, nei paesi industriali la politica economica è oggi meno libera di quanto fosse venti anni fa nel perseguire i suoi obbiettivi. Se anche si rifiutasse l’ancoraggio di un sistema di cambi fissi, il vincolo sulle politiche interne resterebbe; sarebbe solo più indiretto, più mediato: non sarebbe necessariamente meno forte.

I mercati sono anche capaci di distinguere tra effetti del ciclo sul bilancio ed effetti delle politiche discrezionali; sono succubi meno di quanto si creda del nominalismo delle cifre.

Per questo sono convinto che - come è stato fatto con il DPEF - la situazione presente, che vede confliggere il desiderio di compiere in tempi brevi lo sforzo finale per l’immediato ingresso in Europa e la debolezza della fase congiunturale, vada affrontata con aderenza alla realtà, con chiarezza e determinazione negli obiettivi di fondo, con prontezza di adattamento all’evolversi delle condizioni in cui ci è dato di operare.

I messaggi debbono sì essere ambiziosi, ma "credibili". E, al di là del contingente, essi saranno tanto più credibili quanto più si accompagneranno a politiche serie d’ammodernamento dell’amministrazione, di corretta posizione del confine fra pubblico e privato, di liberalizzazione dei mercati, di una mutazione profonda del sistema distributivo, di quello produttivo. In questo processo, è lo Stato che deve fare la prima mossa, che deve dimostrare di essere in grado, prima degli altri, di migliorarsi, di trovare i risparmi di cui abbiamo urgenza.
La scadenza del gennaio 1999 è un dato del quale dobbiamo avere piena coscienza. È un passaggio che non possiamo eludere, perché non coinvolge soltanto categorie, parametri dell’economia, ma coinvolge tutte le sfere della vita civile.

Abbiamo venti mesi davanti a noi. Non una settimana deve essere perduta. In questo, deve unirci uno spirito di orgoglio nazionale, perché l’obbiettivo è largamente condiviso, perché è un obbiettivo che è nell’interesse comune di chi lavora, di chi intraprende, di chi risparmia, di chi studia. La nostra Patria non merita di essere sospinta lontano dai paesi più avanzati dell’Europa. Sarebbe un grave danno per l’Europa stessa. Senza l’Italia l’Europa unita sarebbe squilibrata sotto ogni profilo.

L’Italia in quattro anni si è allontanata da un baratro, ha dimezzato il disavanzo dello Stato, ha quasi annullato il suo debito con l’estero. Le famiglie italiane hanno il tasso di risparmio più elevato d’Europa. Un paese così, non merita di essere escluso dal passaggio fondamentale verso il nuovo assetto politico ed economico del continente. Un insuccesso sarebbe colpa esclusiva di una scarsa fiducia in noi stessi, di un dubitare delle nostre forze nell’ultimo tratto del cammino.

5. Venendo ora ai temi dell’odierno dibattito, vorrei ribadire che l’azione di Governo trova un riflesso puntuale ed impegnativo nella risoluzione predisposta dai gruppi della maggioranza, risoluzione alla quale il Governo esprime convinta adesione. In questa risoluzione, che conferma in pieno, ed in un certo senso rafforza, tutti i vincoli quantitativi di finanza pubblica proposti dal Governo, quattro questioni assumono un significato cruciale: l’adesione all’Unione Monetaria Europea; l’impegno per politiche attive dell’occupazione; il metodo della concertazione; la politica delle privatizzazioni.

La prima questione è dunque l’adesione del nostro Paese fin dal 1 gennaio 1999 alla terza fase dell’Unione economica e monetaria: ciò significa piena approvazione degli obbiettivi e dei percorsi proposti dal DPEF.

Questa decisione rappresenta la pietra angolare dell’azione politica del Governo che assume su di sé l’impegno di far tutto il possibile a che il nostro Paese partecipi sin dall’inizio all’Unione economica e monetaria.

Non minore è e sarà l’impegno del Governo nell’impostare e nell’attuare specifiche politiche strutturali in favore di una maggiore occupazione.

Le iniziative assunte, pur rivolte all’intero Paese territorialmente si concentrano nel Mezzogiorno, dove particolarmente grave è l’elevatezza della disoccupazione.

Si tratta in primo luogo di mobilitare tutte le risorse comunitarie e nazionali già stanziate per dar inizio alla esecuzione delle opere in fase di progettazione avanzata. Questo è il senso della delibera del CIPE della scorsa settimana volta a imprimere un deciso impulso all’attuazione dei programmi cofinanziati con la Comunità Europea.

La risoluzione presentata chiama a una iniziativa straordinaria per gli investimenti pubblici e per l’occupazione. Il Governo ne prende impegno e si appresta a mobilitare le necessarie risorse finanziare nel rigoroso rispetto degli obbiettivi programmatici di finanza pubblica.
Siamo consapevoli della necessità di dotare il Paese, e il Mezzogiorno in specie che ne ha la maggiore carenza, di una adeguata dotazione di infrastrutture di base. Sappiamo che è una condizione necessaria ma non sufficiente per rilanciare una nuova fase di sviluppo economico e civile. Perché il processo di avanzamento si metta in moto occorre che scatti, anche nelle aree meno sviluppate, la capacità, la volontà di intraprendere: nell’industria, nel commercio, nel turismo. Per stimolarla, all’arricchimento delle infrastrutture materiali occorre accompagnare quello delle infrastrutture immateriali, in primo luogo la formazione con criteri moderni delle risorse umane. Occorre inoltre promuovere l’istituzione di insediamenti attrezzati, la creazione di istituti che favoriscano la nascita, sostengano l’affermazione di nuove imprese di piccole e medie dimensioni.

Sono concreti passi in questa direzione "i patti territoriali", di cui con l’ausilio del CNEL e il coordinamento del CIPE, stanno prendendo corpo le prime realizzazioni.

Un altro punto fermo della Risoluzione mi porta a richiamare ancora una volta il protocollo del luglio 1993.

All’interno di quel protocollo venne accolta la realizzazione di una politica dei redditi finalizzata a conseguire - insieme con la crescita del reddito e dell’occupazione - una crescente equità nella distribuzione del reddito e la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni (sto citando dal testo di quell’accordo).

Per l’attuazione di questi ultimi obiettivi, l’accordo indica due piani di azione, convergenti nell’obbiettivo, ma ben distinti in quanto riguardano soggetti diversi e momenti diversi.

Il primo coinvolge le due parti sociali e si sviluppa nei negoziati per la stipula dei contratti collettivi. Negoziati che sono di esclusiva e libera competenza delle due parti e che si svolgono secondo le modalità, le procedure, i criteri indicati nello stesso accordo quadro.

La salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni è citata espressamente fra gli elementi che devono essere tenuti presenti nella valutazione degli effetti economici dei contratti collettivi di categoria. Più specificatamente il protocollo del luglio 1993 aggiunge, allorché tratta dei rinnovi biennali, che la comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva del precedente biennio costituisce specifico riferimento del negoziato. È quanto è avvenuto e sta avvenendo mano a mano che si concludono i contratti del secondo biennio.

Con uguale finalità, ma su un altro e distinto piano, è previsto che operi il Governo. Esso, nell’esercizio dei propri poteri e delle proprie responsabilità, è impegnato ad agire per dissuadere comportamenti difformi dagli obbiettivi enunciati nel ripetuto protocollo e per correggerne gli effetti.

La sua azione va dall’attivazione delle condizioni atte a rendere i mercati più concorrenziali, dalla presenza attiva nella politica delle tariffe, dalla sorveglianza dei prezzi, che ne analizzi i processi di formazione e ne denunci le anomalie, all’assunzione di interventi più diretti, attraverso l’uso degli strumenti fiscali e parafiscali.

Il tutto per assicurare i sopra ricordati obbiettivi di crescente equità nella distribuzione del reddito e di difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni.

Quest’ultimo obbiettivo trova ora rinnovata, esplicita affermazione nella Risoluzione proposta dalla maggioranza. Il Governo avverte il valore della riaffermazione, ne condivide l’importanza, si impegna a tenerne conto nei propri comportamenti, nello stesso spirito con cui quella esigenza venne sentita e fu presente nel corso del negoziato del 1993. La coerenza che informò quel negoziato condusse a escludere il ricorso a formule automatiche; ciò non intendeva certo sminuire, sottovalutare l’importanza di quell’obbiettivo.

Questo richiamo ad alcuni degli aspetti che costituiscono il contenuto dell’accordo del luglio 1993 mi conferma nel convincimento dell’importanza, direi, della necessità di un rilancio di quell’acco’rdo. Rilancio che, fondandosi sugli esiti fortemente positivi di questi primi tre anni di applicazione, deve consistere soprattutto nell’impegno ad attuarlo nelle parti di esso - e non sono poche - che sono state trascurate. Mi riferisco a temi che vanno dal sostegno dell’occupazione giovanile alla impostazione di nuove strutture di formazione professionale (intesa - come ci impone la realtà economica in cui viviamo ’- come processo che investe l’intero arco di vita del lavoratore); dalla innovazione nei tempi e nei modi delle prestazioni lavorative al riassetto istituzionale degli uffici del Lavoro, dal sostegno alla ricerca alla diffusione dell’innovazione tecnologica nelle imprese minori.

Sono temi che devono vedere presto riuniti intorno a un tavolo i tre interlocutori - parti sociali e Governo - con lo spirito che li animò tre anni fa.

La Risoluzione impegna "a proseguire con rigore ed energia nel processo di riordino e privatizzazione delle imprese pubbliche". Questo è l’ultimo, ma non meno importante criterio guida nell’azione del Governo.

Nei giorni immediatamente successivi al suo insediamento, il Governo annunziava un primo calendario delle operazioni che potevano essere rapidamente avviate: il completamento della privatizzazione dell’INA e dell’IMI, la preparazione del secondo collocamento di azioni ENI per la prima metà di ottobre. Il programma sta procedendo secondo quanto previsto: l’INA e l’IMI non sono più dello Stato, l’operazione ENI ha raggiunto un avanzato stato di preparazione.

È ferma intenzione del Governo a che la privatizzazione delle società operanti nel settore delle telecomunicazioni proceda con rapidità e secondo una configurazione che permetta di massimizzare il ricavo per il venditore. Se i tempi di questa privatizzazione saranno condizionati dalla complessità dell’iter legislativo del disegno di legge sulla Autorità, non così è per la privatizzazione dell’ENEL dove la competente Autorità è stata già istituita: i preparativi per la privatizzazione, interrotti lo scorso anno, quando erano già in una fase avanzata, saranno ripresi all’inizio di settembre.

È altresì ferma intenzione del Governo che la privatizzazione dell’economia italiana proceda di pari passo con la liberalizzazione dei settori industriali strategici per il suo sviluppo: si impedirà che monopoli privati subentrino a quelli pubblici.

Alla determinazione del Governo nel privatizzare deve accompagnarsi quella dell’IRI di cui il Tesoro è azionista unico. L’IRI deve completare un processo di revisione delle sue caratteristiche esistenziali, della sua stessa identità, un processo iniziato ben prima del luglio 1992, quando con il D.L. n° 333 fu trasformato in Società per Azioni. L’IRI deve procedere con sollecitudine alla dismissione di un gran numero di società da esso partecipate o controllate: lo stato dei suoi conti lo richiede, gli accordi presi in questo senso con la Comunità lo esigono, ma soprattutto lo pretende la nuova linea di demarcazione tra il pubblico e il privato, una frontiera che vede assegnato allo Stato un minor numero di compiti, svolti con un livello di qualità superiore che non in passato. Sul destino patrimoniale dell’IRI occorre tuttavia essere chiari: l’azione di stimolo che il Tesoro svolge nei confronti dell’Istituto è pari alla sollecitudine con cui intende adempiere ai propri doveri di azionista unico. L’equilibrio patrimoniale dell’IRI non è e non sarà mai messo in discussione.

I quattro profili prima indicati costituiscono le condizioni base al cui interno diviene credibile e concretamente possibile una politica di bilancio che si giovi di una riduzione dell’inflazione e dei tassi di interesse e al tempo stesso concorra a determinarla. In questa prospettiva si creano le condizioni per liberare risorse aggiuntive e per rimettere in moto il processo di sviluppo e di nuova occupazione in un quadro di equilibrio e di solidità economica.

* * * *

Signor Presidente, Onorevoli deputati,

come vedete, si intersecano e si richiamano nella nostra programmazione economica e finanziaria le grandi e fondamentali questioni del Paese. Il concorso italiano alla stabilità monetaria, alla coesione sociale, alla competitività industriale della regione Europa. Il riscatto dalla disoccupazione strutturale e tecnologica e dalla povertà di milioni di donne e di uomini drammaticamente addensati nel sud del Paese. Il disegno di uno Stato sociale non più al riparo dei confini nazionali e costantemente preoccupato dei suoi equilibri futuri. Il consolidamento di un metodo di governo che sposta sugli attori della concertazione grandi responsabilità, di natura non solo economica, ma mantiene necessariamente in questo Parlamento il momento della sintesi alta e definitiva dell’interesse nazionale.

Davvero non c’è possibilità di affrontare questi problemi senza tenere conto della loro interdipendenza, del carattere necessariamente bilanciato delle loro soluzioni. Non è logica una visione che sia solo monetaristica o solidaristica o nazionalistica dello sviluppo italiano. Ogni visione parziale, unilaterale è destinata al fallimento perché i processi reali dello sviluppo mondiale rifiutano parzialità e unilateralismi.

Questi processi, che una empirica formula riassuntiva chiama di globalizzazione, portano ogni giorno nuove sorprese. Svalutazioni senza inflazione; crescita senza occupazione; finanziarizzazione senza - o addirittura contro - l’economia reale; esasperazione di nuove attività finanziarie senza compenso di garanzie; successo di liberismi economici senza corredo di clausole democratiche e sociali. Sono così saltate regole tradizionali, equazioni collaudate tra i fondamentali dell’economia.

Noi, Parlamento e Governo, dobbiamo tenere conto di tutto questo e affrontare i tempi con capacità politica, la capacità cioè di invenzioni istituzionali, economiche e sociali per sfruttare il nuovo cogliendo il filo positivo delle sue correnti.

Noi non dobbiamo farci imprigionare da vecchi schemi e da tradizionali pregiudizi. La politica economica e finanziaria che abbiamo concepito è severa ma tiene conto delle dinamiche in atto. Essa costituisce, di per sé, la nostra politica per oggi e per l’avvenire.

Questa è del resto l’unica politica che sappiamo fare nell’interesse del Paese, perché la collocazione dell’Italia in Europa non divenga di oggettiva sudditanza.

Questa politica non può essere disturbata ma semmai rafforzata dalle normali costruttive dialettiche nella coalizione e non può essere influenzata da pratiche ostruzionistiche dell’opposizione che attendiamo a più utili posizioni di confronto.

Non ci faremo distogliere dalla politica che abbiamo impostata. Su questo impegno chiediamo il consenso del Parlamento, del Paese, degli operatori economici internazionali.