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Intervento alla V Commissione Bilancio Tesoro e Programmazione - Camera dei Deputati

15/10/1996

Roma - Camera dei Deputati
Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione
15 ottobre 1996

Intervento del ministro Ciampi

Onorevole Presidente, onorevoli Deputati,
il mio compito è fortemente facilitato dalle particolareggiate esposizioni dei due relatori. Direi che, se anche mi fossi solo limitato ad ascoltare e se anche facessi finta di non conoscere niente della materia in discussione, onestamente non saprei quali possano essere i dubbi circa la rilevanza qualitativa, e non solamente quantitativa, del complesso di provvedimenti che il Governo ha presentato. Di questo sono particolarmente soddisfatto, perché uno dei miei sforzi maggiori è sempre stato quello di cercare di collegare i singoli provvedimenti - nel mio caso di riduzione della spesa, nel caso del ministro Visco di aumento dell’entrata - con un fatto fondamentale per il paese che consiste nella riforma della pubblica Amministrazione e nella riforma del bilancio, su cui, magari, tornerò tra poco.

A parte questa prima espressione di ringraziamento, per quanto ho ascoltato dai relatori, vorrei subito affrontare le critiche che, invece, sono state espresse da molti componenti di questa stessa Commissione e si basa su alcune valutazioni effettuate dagli uffici tecnici della Camera. Al riguardo sono già in corso confronti tra gli uffici tecnici della Camera e del Tesoro, in particolare della Ragioneria generale dello Stato; confronti che mi auguro si concludano rapidamente, magari con l’integrazione da parte del Tesoro dei documenti da noi presentati. Mi sento, comunque, tranquillo rispetto a tale confronto, perché il modo con il quale i tagli della spesa sono stati costruiti - mi riferisco proprio ad una questione di metodo - mi garantisce, al di là delle valutazioni sulle singole voci, che il saldo complessivo delle misure di riduzione della spesa proposte corrisponda effettivamente ad una valutazione prudenziale.

Credo che per la prima volta nel preparare il complesso dei provvedimenti che avete all’esame al Tesoro si siano fatte tre cose. Innanzitutto, una meticolosa ricognizione delle varie voci di spesa di tutti i ministeri, che ci ha impegnati a partire dall’inizio del mese di luglio, non appena presentato il DPEF. In secondo luogo, un confronto con i singoli ministeri della spesa, sia a livello di ministro sia di organi tecnici. Infine, una valutazione prudenziale degli importi di risparmio risultanti a livello delle singole spese: non abbiamo inserito per intero le voci di competenza o le valutazioni dei singoli ministeri ma, là dove non ci fosse una coincidenza evidente tra cassa e competenza, abbiamo operato riduzioni sulle autorizzazioni di cassa, proprio per tenere conto di questo divario. Cito due esempi: per quanto riguarda le riduzioni dei trasferimenti ai comuni è stato considerato che, per lo più, i comuni hanno importanti giacenze di tesoreria; dunque, si è operato un taglio pari a 100 ma considerando che il comune ha giacenze di tesoreria il cui saldo a fine anno può essere ridotto. Così si riduce, di fatto, l’effetto sul fabbisogno. Abbiamo, quindi, fatto uno "sconto", che in alcuni casi è stato del 15-20 per cento. Il secondo esempio riguarda la sanità; direi che in questo caso ha funzionato in particolar modo il confronto dialettico, perché a fronte di alcune proposte avanzate dal Tesoro il ministero di settore ha fatto delle controproposte, che abbiamo ritenuto di dover prendere in considerazione più delle nostre (affinché i tagli venissero operati con l’accordo dell’amministrazione interessata, senza alcuna imposizione da parte del Tesoro). Il ministero della Sanità ha, dunque, proposto quattro voci di riduzione di spesa, dando una valutazione di 1.500 miliardi ed aggiungendo che si trattava, a suo avviso, di una valutazione prudenziale, essendo convinto che i provvedimenti avessero un valore di 1.600-1.700 miliardi; da parte nostra ci siamo permessi di mettere in dubbio tale valutazione ed abbiamo indicato alla voce di riduzione del fabbisogno non 1.500 ma 1.200 miliardi (qualcuno, magari, può dubitare che siano 1.000 o addirittura 900, poiché è una delle voci più soggette a discussione). Faccio presente che una delle quattro voci indicate è proprio quella che ha dato luogo alla protesta dei farmacisti attualmente in corso, il che significa che è una cifra che "morde", altrimenti non avrebbero protestato. Come tutti coloro che utilizzano le farmacie osservo - aprendo una piccola parentesi nella nostra discussione - che non capisco perché il farmacista debba ricavare una percentuale fissa su ogni farmaco, indipendentemente dal valore dello stesso. Su una medicina che costa 10 mila lire, il farmacista ha 2.600 lire di ricavo lordo; su una medicina che costa 100 mila lire, quel ricavo è di 26 mila lire e non mi sembra che questo sia giusto dato che, di fatto, il lavoro del farmacista è praticamente uguale se fornisce una medicina da 10 mila lire o da 100 mila: in entrambi i casi, infatti, gli sarà consegnata una ricetta sulla base della quale cercherà nei suoi armadi il farmaco e lo consegnerà al cliente. Una riduzione della percentuale di ricavo mi pare, dunque, una cosa abbastanza naturale (si tratta, tuttavia, di una parentesi che chiudo subito).

Sono convinto che il confronto che è già in atto porterà ad opportuni chiarimenti che favoriranno la vostra discussione, così come sono convinto che il saldo finale (potranno esserci valutazioni diverse tra i tecnici della Camera e quelli della Ragioneria generale che potranno dare un più o un meno nelle singole voci) non modificherà le previsioni totali di risparmio (17 mila miliardi previsti nel collegato) ed anzi potrebbe dare qualcosa in più perché abbiamo cercato di seguire una linea fortemente prudenziale.

Quel che ritengo più importante nel presentare il complesso di provvedimenti in discussione è la sua validità qualitativa al fine di cominciare a realizzare gli obbiettivi più importanti che il paese deve perseguire: la riforma della pubblica Amministrazione e la riforma del bilancio dello Stato che attualmente è in discussione al Senato. Su questo punti penso che ci sia un consenso generale, anche tenuto conto che quella del bilancio dello Stato è una riforma da anni sollecitata e che questo Governo ha presentato al Parlamento entro i suoi primi tre mesi di vita.

Aggiungo che ho costituito (di fatto già da un mese, anche se formalmente devo ancora firmare il provvedimento interno) un gruppo di lavoro composto da esperti contabili e di automazione della Ragioneria generale, della Direzione generale del Tesoro e della Banca d’Italia per superare quelle cesure che esistono di fatto tra queste tre istituzioni per quanto riguarda i conti dello Stato. Infatti, tra la Banca d’Italia che gestisce la tesoreria, la Direzione generale del Tesoro che segue la tesoreria dello Stato e la Ragioneria dello Stato vi sono attualmente cesure che ormai non sono più accettabili, tenuto conto degli strumenti di elaborazione dati di cui un paese può oggi disporre. Conto che questo gruppo di lavoro nel giro di sei mesi pro duca proposte di provvedimenti. Il mio ragionamento è questo: qualsiasi spesa dello Stato dà luogo ad un mandato di pagamento e qualsiasi entrata dello Stato dà luogo a una distinta di versamento; in questi documenti devono essere inserite tutte le indicazioni che permettono a quel documento di risalire dagli sportelli della tesoreria della Banca d’Italia alla tesoreria dello Stato e alla Ragioneria generale in maniera continuativa, senza che ci siano, come accade attualmente, momenti di cesura (per cui quando si vuole sapere come vanno i conti dello Stato si è costretti a chiedere un po’ all’uno ed un po’ all’altro per poi fare la sintesi). Questo spiega anche perché sono così difficili oggi le valutazioni circa l’andamento dei disavanzi dello Stato e della pubblica Amministrazione in generale.

Aggiungo che dall’esposizione del relatore Cherchi è emerso che tutti i settori sono stati toccati. Quando si dice, come ormai accade comunemente, che il Governo non ha toccato sanità, previdenza e pubblico impiego, basta vedere questi documenti per verificare il contrario: quanto, cioè, questi tre settori siano stati toccati. Certo ogni intervento è stato compiuto nel rispetto degli impegni che l’attuale Governo e i precedenti avevano assunto, ma quei settori sono stati ampiamente toccati.

Per quanto riguarda le misure singole, sono poi pienamente d’accordo con quanto ha proposto l’onorevole Cherchi circa l’anticipata programmazione del secondo triennio del quadro comunitario di sostegno 1994-99. Questo è un punto sul quale mi vorrei soffermare.

Come titolare dei dicasteri del Tesoro e del Bilancio, sottolineo che uno dei principali sforzi che stiamo compiendo al bilancio, come sapete, è quello di una accelerazione dei lavori di infrastruttura e, all’interno di questi, di una forte accelerazione dell’utilizzo dei fondi strutturali europei.

Siamo il paese d’Europa con il più basso utilizzo di questi fondi: gli impegni non superano il 20 per cento per quanto riguarda il triennio in corso e gli effettivi incassi non superano il 7-8 per cento. Sotto questo profilo stiamo conducendo un lavoro che non è facile, e che deve essere portato avanti non fra il nostro paese e Bruxelles ma all’interno dello Stato italiano, fra le varie amministrazioni.

Accade infatti che quando arrivano i fondi tutti si affrettano a chiederne una rilevante assegnazione, a qualsivoglia livello (regione, provincia, comune); successivamente, quando si tratta di presentare i progetti per l’esecuzione dei lavori, abbiamo ritardi che di fatto danno luogo alla perdita di quei fondi, giacché passano i periodi previsti per il loro utilizzo e la Commissione europea li revoca. C’è peraltro da rilevare che se non facciamo un investimento finanziato per intero dallo Stato italiano abbiamo la consolazione di dire che non si sono spesi i soldi; se invece non facciamo un investimento che è finanziato in parte dall’Unione europea, perdiamo soldi che noi stessi abbiamo conferito alla Commissione europea, che non fa che assegnare quello che ha ricevuto dagli Stati membri. Si realizza dunque in questo caso un doppio danno. Stiamo anche lavorando, speriamo con buoni risultati - che dovrebbero tradursi per il prossimo anno in una accelerazione degli investimenti in infrastrutture, specie nel Mezzogiorno e nelle aree depresse -, anche per sostituire parte dei finanziamenti nazionali con finanziamenti comunitari.

Un problema fondamentale che è stato toccato da ambedue i relatori è quello degli effetti sull’economia, a proposito del quale sono stati citati anche i più autorevoli pareri dei responsabili delle istituzioni che in questa sede sono stati convocati. Mi soffermerei soprattutto sull’elemento che continuamente richiamo, e che è la via lungo la quale si vince o si perde (non vorrei definirla "la nostra scommessa" perché non è una scommessa) il nostro sforzo per risanare definitivamente il bilancio dello Stato, completare il risanamento dell’economia ed entrare in Europa: mi riferisco ai tassi di interesse.

L’onorevole Morgando ha parlato di questo macigno che grava sullo Stato italiano, cioè la spesa per gli interessi. Cito ancora una volta dati che ho fornito di recente in aula: la nostra spesa per interessi è pari ad oltre il 10 per cento del prodotto interno lordo. Nessun paese ha un carico di interessi così elevato. Si può sostenere che la ragione è che abbiamo un grosso debito. È vero, ma cito sempre il caso di un altro pese europeo, il Belgio, che ha un debito maggiore del nostro (il 135 per cento del prodotto interno lordo contro il 125 per cento dell’Italia); ebbene, sul bilancio dello Stato belga grava non il 10 abbondante, ma il 7 per cento. E voi sapete cosa significano 3 punti percentuali per un paese: nel caso dell’Italia si tratta di 60 mila miliardi. Questo è il macigno che abbiamo addosso e che dobbiamo cercare di alleggerire.

Allora tutto il nostro sforzo si concentra nel ridurre quel differenziale di tassi d’interesse che grava particolarmente sull’Italia e che è dovuto a due cause principali: il differenziale del tasso d’inflazione e il rischio-Italia, considerato maggiore di quello degli altri paesi.

Il tasso d’inflazione, com’è noto, è in calo, tant’è che siamo passati dalla punta che abbiamo toccato per la seconda svalutazione (non voluta da nessuno ma purtroppo occorsa nel nostro paese) dell’inverno-primavera 1995, che portò la nostra moneta al rapporto di 1.270 lire per ogni marco e che provocò un’accelerazione dell’inflazione per cui i prezzi alla produzione che erano scesi sotto il 3 per cento risalirono al 9 per cento e i prezzi al consumo che erano scesi al 3,5 per cento risalirono al 6 per cento. Tutto ciò in termini di tassi d’interesse ha prodotto la conseguenza che il differenziale con la Germania superò i 6 punti percentuali, il che significava che se lo Stato tedesco prendeva denaro a prestito dai propri cittadini lo pagava il 6 per cento, mentre lo Stato italiano lo pagava il 12,5 per cento (si tratta di 600 punti base, cioè 6 punti percentuali di differenza).

L’inflazione - ripeto - è calata e sta ancora calando: attualmente è attestata al 3,4 per cento e confermo che è abbastanza facile ritenere che entro la fine dell’anno si aggirerà intorno al 3 per cento. Questo è un dato importante, per cui resta valido il nostro obbiettivo di scendere al 2,5 per cento nella media del 1997. Nel frattempo si è ridotto fortemente il rischio-Italia, perché il nostro differenziale con la Germania, che un anno fa era di oltre 600 punti base, si è ridotto alla fine del 1995 e in parte del 1996; quando si è insediato questo Governo era attestato su circa 340 punti base, mentre ieri e credo che anche oggi oscilla sui 230 punti base (ciò significa che se la Germania si indebita al 6 per cento, l’Italia lo fa all’8,30 per cento).

Vi cito ora alcuni dati relativi ai tassi di interesse, che rappresentano il motivo che deve spingerci a continuare su questa strada e convincerci che questa è l’unica via giusta che, tra l’altro, ci permette di raggiungere l’obbiettivo a costi decrescenti. Mi riferirò soltanto ai titoli di Stato, una voce considerata indicativa nel breve termine: nell’ottobre del 1995, le due aste di buoni del Tesoro ordinari a 12 mesi si conclusero una al 10,80 e l’altra all’11,30 per cento; quando questo Governo è entrato in carica, cioè a fine aprile, la media era del 9 per cento; oggi siamo al 7,50 per cento di rendimento lordo, rendono cioè ai cittadini risparmiatori il 6,50 per cento (ci sentiamo poveri a prendere così poco dallo Stato, perché siamo stati abituati per anni a prendere il 10-12 per cento). Per i titoli a 10 anni è accaduta la stessa cosa: nel 1995 un BTP costava allo Stato l’11,25 per cento, oggi costa l’8,40 per cento. Questo è ciò che ci deve spronare ad andare avanti lungo questa linea. Se riusciremo a migliorare ancora un po’ e poi a consolidare quel livello di tassi, in modo che rispecchi al massimo il differenziale di inflazione, come è giusto, veramente avremo vinto la nostra grande scommessa.

Tutta l’impostazione della politica economica e della politica del Tesoro si basa su questo. Non lo dico oggi, ma lo ripeto da quando ho assunto la responsabilità di questo dicastero e lo dicevo anche prima.

Di fronte a questa forte riduzione dei tassi di interesse, dobbiamo considerare che una riduzione di 1 punto a regime - perché il debito pubblico italiano ha durata triennale - porta a 20 mila miliardi di risparmio (nel primo anno 7 mila miliardi). L’economia produttiva italiana, cioè i privati imprenditori hanno un debito complessivo calcolato fra gli 800 mila e i 900 mila miliardi di lire; una riduzione di 1 punto del tasso di interesse per loro, già nel primo anno (sono indebitati in gran parte a breve), porta ad una cifra che supera i 4 mila miliardi. Allora l’effetto recessivo temuto della manovra è compensato in larga parte da questa riduzione degli oneri sia per lo Stato sia per l’impresa.

A questo si aggiunge che una stabilità dell’economia (inflazione intorno al 3 per cento) e una situazione di minore incertezza generale influiscono sulle aspettative sia degli imprenditori, che sono portati a riprendere gli investimenti, sia dei consumatori, che hanno ridotto la loro propensione al consumo proprio per le incertezze relative all’occupazione e alla condizione economica e politica del paese.

Ci giochiamo tutto in queste interrelazioni che trovano la loro espressione più significativa nel tasso d’interesse. Dico questo non perché sia affetto da una malattia professionale derivante dal mio passato, ma perché il tasso d’interesse è il fattore che sintetizza il movimento che riguarda l’economia reale.

Vorrei aggiungere qualche altra cosa per quanto riguarda soprattutto alcune considerazioni di carattere generale che ha evocato l’onorevole Morgando. Egli ha già fatto presenti la logica e la strategia complessiva di questa finanziaria e di questo Governo. La riforma della pubblica Amministrazione è un fatto fondamentale.

Ricordiamo che quando l’Unione monetaria europea sarà stata fatta, quando il mercato europeo sarà veramente un mercato unico, al suo interno i vincitori saranno quelli che avranno maggiore efficienza e gran parte di questa efficienza si gioca nel settore amministrativo e fiscale.

Quindi, i paesi meglio organizzati sotto il profilo amministrativo e fiscale, all’interno dell’Europa, saranno i vincitori.

Abbiamo parlato più volte del mutamento della manovra del Governo, del passaggio dalla finanziaria "normale" a quella per il rientro in Europa. È stato notato che questa evoluzione era presente al Governo e a me personalmente sin dal giugno scorso. La sua esplicitazione non è avvenuta allora per un motivo di chiara opportunità non solamente politica ma economica: in un momento nel quale la situazione dell’economia italiana ed europea aveva molte incertezze e le previsioni della maggior parte degli operatori italiani (basta prendere i giornali usciti fino a un mese e mezzo fa) indicavano un’imminente recessione (ero uno dei pochi che dicevano che dopo il periodo di rallentamento sarebbe iniziata la ripresa), sarebbe stato improvvido parlare, con la presentazione del DPEF, di una manovra di 65 mila miliardi che si sommava alla manovra correttiva dell’inizio di giugno (tendente a supplire ai difetti contenuti nella precedente finanziaria). Sarebbe stato un errore perché avrebbe giocato negativamente sulle aspettative, avrebbe impaurito. Allora dicemmo con tutta onestà che avremmo presentato una Legge finanziaria che avrebbe ancora mirato, sulla base del precedente documento di programmazione, a raggiungere il 4,5 per cento di rapporto fabbisogno-PIL nel 1997, per poi arrivare al 3 per cento nel 1998. Però aggiungemmo che prima della fine dell’anno, cioè in autunno, avremmo rivisto la situazione: se, come speravamo, la congiuntura in Europa fosse andata per il meglio, se i mercati finanziari ci avessero seguito e fosse iniziata la riduzione dei tassi di interesse, che contribuisce a rafforzare la manovra, ci saremmo proposti un ulteriore intervento per andare al di là del 4 e mezzo per cento ed arrivare al 3 per cento già nel 1997. Questo è quanto dicemmo e quanto è avvenuto.

Su tutto ciò ha influito certamente anche quello che sta accadendo in Europa negli ultimi tempi, cioè il generale maggiore sforzo di tutti i paesi verso una convergenza che permetta l’ingresso sin dall’inizio nell’Unione economica e monetaria.

Su questo aspetto concludo con una mia personale convinzione che sottolinea l’importanza di non mancare l’appuntamento. Sapete che sono un convinto europeista e ho sempre sostenuto che l’Europa era destinata fatalmente a unirsi e che ciò poteva avvenire in due maniere: o di fatto, per un’aggregazione che aveva luogo sotto la spinta e la trazione dell’economia o delle economie più forti, con tutti i rischi che ciò implicava successivamente perché poteva dar luogo a risentimenti o riaccensioni di nazionalisti, oppure attraverso la via istituzionale, la via che è iniziata quarant’anni fa, poi proseguita, e che finalmente è arrivata alla sua enunciazione più appropriata, almeno per quanto riguarda gli aspetti monetari ed economici, con il Trattato di Maastricht. L’Europa ha quindi imboccato la strada giusta; un’Europa che si unisce in modo istituzionalmente definito, con equilibri e compensi chiaramente indicati, e non sotto un’egemonia di fatto. Se per avventura accadesse che rinvii di questa fase, che poi potrebbero diventare rinvii sine die, portassero a un allontanamento di Maastricht, dovremmo tener conto che già oggi di fatto viviamo in un governo economico europeo.

Questa è la realtà.

Mi permetto di ricordare una frase che rivolsi nel 1988 (o 1989) all’allora giovane cancelliere dello scacchiere Major che venne a Roma e si recò presso la Banca d’Italia. Egli si dichiarò contrario alla perdita della sovranità monetaria e si meravigliava che io, governatore, fossi favorevole. Gli risposi in questi termini: caro cancelliere, io ho sotto il mio pollice il pulsante dei tassi d’interesse in Italia e posso spingerlo in un senso o nell’altro; però di fatto mi accorgo che il pulsante si muove prima che io muova il pollice, per decisioni prese altrove, e allora preferisco un domani avere un pezzetto del mio pollice, che contribuisce a spingere il pulsante europeo, piuttosto che star qui a sentire il pulsante che si muove senza che io lo spinga. Così pensavo sette o otto anni fa e ancor di più lo penso oggi e ve lo dico con tutta franchezza; questa è la vera sovranità, le altre diventano finzioni di sovranità.

Altra considerazione. Quando si creano le nuove istituzioni, chi vi entra per primo vi imprime il suo DNA; chi arriva dopo, entra in una casa che già è stata abitata e che ha preso il sapore dei primi inquilini. Ciò avviene anche nelle istituzioni. Per questo dobbiamo cercare di entrare in Europa e dobbiamo entrarci subito, perché noi contribuiamo a far sì che le nuove istituzioni europee abbiano anche qualcosa che rifletta il nostro modo di essere e di vivere, soprattutto (insisto molto su un fatto importantissimo sul quale non voglio entrare) che ci sia equilibrio fra la componente mediterranea e quella mitteleuropea. Non si può fare un’Europa che nasce come prevalentemente mitteleuropea. Noi siamo l’origine dell’Europa e non dobbiamo star fuori; da ciò deriva la mia determinazione a entrare in Europa.

Ieri mi trovavo a Lussemburgo per la riunione dell’Ecofin: non si è parlato dell’eventuale rientro dell’Italia nel sistema monetario europeo (però ho fornito ai giornalisti alcune risposte che sono apparse sulla stampa di oggi); pur non essendosene parlato in riunione, emerge tuttavia da parte sia dei colleghi membri della Comunità sia della Commissione una grande attesa per quello che stiamo facendo. Essi hanno visto forse con una certa sorpresa questa nostra nuova determinazione ad entrare in Europa; la considerano con favore e si attendono che a essa corrispondano i fatti. Che poi gli operatori, ripeto, abbiano valutato positivamente questo nostro nuovo slancio verso l’Europa, lo dimostra la realtà dei mercati tutti i giorni. Infatti da quando abbiamo espresso questo sentimento, i mercati, quindi le aspettative degli operatori, sono a nostro favore; deluderle sarebbe la cosa peggiore, perché significherebbe fare il nostro danno.

Da ciò discende quello che ho detto anche ieri ai giornalisti a Lussemburgo: ora abbiamo la finanziaria, il Parlamento la discuterà; personalmente mi dichiaro a favore di tutto quello che può rafforzare la finanziaria, quindi implicitamente sono contrario a tutto quello che può indebolirla, perché è l’unica strada che ci conduce ai risultati di cui ho parlato.