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Intervento al 40° anniversario del Forex Club Italiano

26/01/1997

MILANO

26 GENNAIO 1997

40° ANNIVERSARIO DEL FOREX CLUB ITALIANO

INTERVENTO DEL MINISTRO CIAMPI

Il rientro della lira nell’accordo di cambio del Sistema monetario europeo è avvenuto 18 anni dopo il suo primo ingresso: fu a Bruxelles, il 5 dicembre del 1978, che il Consiglio europeo istituì il Sistema monetario che cominciò ad operare nell’aprile del 1979; e ancora a Bruxelles, il 24 novembre del 1996 la lira, dopo 14 anni di presenza e 4 anni di assenza, è tornata nell’Accordo di cambio.

Fu nell’autunno del 1980 il mio primo incontro con Voi, che si è ripetuto di anno in anno senza interruzioni, fino all’ottobre del 1992.

Vorrei oggi rileggere quegli anni cercando il filo conduttore degli accadimenti, delle tensioni, delle speranze, dei successi, delle amarezze. Una rilettura che è necessaria perché il lungo viaggio allora intrapreso si sta avvicinando alla meta. E di questa meta dobbiamo capire la storia e il valore; se vogliamo raccogliere le energie necessarie agli ultimi passi.

Molti vedevano nell’ingresso nello SME una scelta pericolosa; un Paese che nelle vicende degli anni ’70 aveva mostrato particolare fragilità agli "shocks" internazionali, che soffriva di un’elevata propensione all’inflazione, un Paese ferito e turbato da sussulti tragici di terrorismo, saliva sul carro delle monete d’Europa. Un carro che negli anni a seguire percorse un cammino accidentato; fu fermato più volte, per consentire all’orologio dei fine settimana di scandire i tempi spesso convulsi dei riallineamenti; ma avanzò fino a permettere di tracciare con il Trattato di Maastricht il disegno della moneta unica dell’Europa.

Leggo, e ho vissuto, quegli anni - quel passato e questo presente - in modo non dominato da quei timori. Vedo nelle vicende della lira un progresso - certo con andamenti alterni, ma forte e reale - verso quella che amo chiamare la "cultura della stabilità".

Questa lettura annovera quel che è cambiato in meglio nella costituzione materiale dell’economia italiana e dipana il filo rosso del nuovo per intesserlo in una cornice che nel tempo è venuta definendosi, nel contesto di una economia e di una società che hanno abbracciato irreversibilmente i valori dell’apertura, della concorrenza, della stabilità, della sana amministrazione: valori che sono un bene in sé, ma che convergono nel promuovere e sostenere una crescita economica e sociale equilibrata e duratura.

Perché è essenziale rileggere la nostra storia recente? Non solo per capire, come diceva Eugenio Montale, "quel che non siamo e quel che non vogliamo". Ma anche perché questo 1997 che si apre è l’anno della verità. Per noi e per gli altri Paesi europei è l’anno in cui i conti pubblici e i tassi, di inflazione e di interesse, l’intera economia dovranno mostrare l’ordine necessario per entrare da protagonisti nel grande progetto della moneta unica.

Chi sarà a giudicarci? Il Trattato di Maastricht prevede che il giudizio venga dato dal Consiglio dei Paesi stessi, giudizio globale dello stato e del modo di essere di ciascuna economia, del quale i parametri assegnati dal Trattato saranno riferimenti essenziali.

Ma un giudizio altrettanto importante è quello pronunciato, ogni giorno e ogni minuto, dai mercati: ed esso, da qualche tempo, ci è di conforto e di sprone. I dati sono sotto gli occhi di tutti.

L’Italia sa che deve liberarsi del tutto di un singolare handicap: quello che vede il pregiudizio anteporsi al giudizio, quello che spesso vede i comodi stereotipi anteporsi all’analisi accurata dei fatti, quello che vede la nomea del passato prevalere sulla solidità del presente. É tanto più importante allora, rivisitare il tempo trascorso, ripercorrere le vicende, i travagli del cammino compiuto; li troveremo iscritti in un quadro ove prevale la ricerca di stabili equilibri, di comportamenti coerenti, di partecipazione attiva a più ampie realtà economiche e politiche.

Quando alla fine del 1978 il Governo italiano decise la partecipazione al Sistema monetario europeo, quella decisione fu molto più che un atto di politica valutaria. La nostra moneta, stanza di compensazione delle tensioni dell’economia, della società, veniva a confrontarsi in presa diretta con le altre monete, con mercati sempre più ampi, sempre più severi. Era quello l’inizio di un lungo cammino, in cui limiti, vincoli, puntelli e incrostazioni che isolavano i nostri mercati e limitavano le scelte dei risparmiatori e degli operatori sarebbero venuti mano a mano a cadere.

La seconda crisi petrolifera del 1980 portò l’inflazione a oltre il 20 per cento: vi era il rischio di un continuo avvitamento in cui lira, prezzi e salari si sarebbero rincorsi in una spirale verso l’alto delle grandezze nominali e verso il basso delle grandezze reali. Fu allora che si cominciò a dire "basta". Ricordo ancora un colloquio nel mio studio di Governatore della Banca d’Italia in cui dissi no a chi, in un passaggio critico, chiedeva la svalutazione. Cominciò la politica dell’attrito: non era possibile tener ferma indefinitamente la parità centrale della lira, dato che l’inflazione in Italia era un multiplo di quella degli altri Paesi; ma il deprezzamento veniva consentito per un valore minore del differenziale della dinamica dei prezzi. La conseguente rivalutazione reale del cambio faceva attrito sull’inflazione, sui costi; forzava le imprese a innovare e a ricercare competitività agendo su elementi diversi dal prezzo.

Fu di quel periodo anche il cosiddetto "divorzio" fra Tesoro e Banca d’Italia. Le lettere che scambiai con l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta sancirono la fine di un ruolo "privilegiato" della Banca d’Italia come prestatore di ultima istanza nei confronti dello Stato. E preannunciarono lo smantellamento progressivo di altri steccati che erano stati eretti per recintare nelle frontiere il risparmio degli italiani, e favorirne l’incanalamento, lungo linee di minima resistenza, verso il finanziamento del disavanzo pubblico.

Di quello smantellamento furono tappe fondamentali gli stadi di liberalizzazione dei movimenti di capitali. Liberalizzazione che è ormai da anni completata, che dà diritto a tutti di scegliere liberamente, nel mondo intero, dove mettere a frutto i propri risparmi. Da allora si è avviato, e continua a ritmi costanti, un processo di diversificazione del portafoglio degli italiani, che continuerà fino a quando la quota di attività estere raggiungerà il livello fisiologico che si riscontra in altri Paesi. Come si conviene a un processo di vera internazionalizzazione, le uscite sono compensate dagli ingressi di capitali stranieri, che vedono nei nostri strumenti finanziari proficue possibilità di investimento.

Mancò nella Comunità europea l’armonizzazione del trattamento fiscale delle attività finanziarie. Era impegno preso, sia pure senza atti formali, dai ministri delle finanze dei Paesi della CEE, allorché fu decisa la libertà di movimento dei capitali a breve. Ma al momento di tradurre l’impegno in norma, l’opposizione di alcuni Paesi ne impedì la realizzazione. É ora tempo di provvedere senza ulteriori incomprensibili rinvii, incoerenti con i principi alla base della stessa politica economica europea.

Ancora prima di completare la liberalizzazione dei movimenti di capitali un altro importante cambiamento aveva cominciato a prendere forma. Mi riferisco alla deindicizzazione dell’economia. L’attrito del cambio costringeva le imprese a ristrutturarsi, a fare i conti con i costi, sotto la spinta di una crescente concorrenza internazionale. Ne derivò una sempre più forte pressione per eliminare - o quanto meno attenuare - quegli strumenti che alimentavano, perpetuandola, la spirale costi salariali-prezzi: nel 1975, l’indicizzazione aveva ottenuto pienezza di contenuto con un accordo fra le parti sociali. Se la via del cambio accomodante era bloccata, si rafforzava l’esigenza di tagliare alla radice la malapianta di quella spirale, che non difendeva i redditi reali dei lavoratori e mortificava la competitività delle imprese. Le denunce dell’incompatibilità della scala mobile in un contesto economico liberalizzato si intensificarono. Il problema divenne "caldo" con il referendum del 1985. Quel referendum costituì uno spartiacque nell’atteggiamento degli italiani verso l’inflazione. Molti erano pessimisti sul suo esito. è come chiedere agli italiani di negarsi un aumento di stipendio, si diceva. Invece, il referendum ebbe esito positivo e l’indicizzazione fu attenuata. Gli italiani non si erano votati un aumento di stipendio: cominciavano a rendersi conto che gli aumenti portati dalla scala mobile erano nominali, illusori; ingranaggi di un gioco a somma negativa in cui alla fine erano tutti perdenti.

Ma l’avvento della cultura della stabilità era ancora lontano, richiedeva altri passaggi duri.

L’impegno di Maastricht fu assunto nel dicembre 1991 con chiara visione politica, confidando che la maturazione all’interno del Paese seguisse. Il volgere delle condizioni, esterne e interne, politiche ed economiche, precipitò nella crisi dell’estate-autunno del 1992.

Credo sia importante tornare su quella esperienza, su quei momenti, allorché divenne aperto e acuto il confronto, meglio lo scontro, fra due modi di essere, di interpretare e di affrontare, di vivere le vicende non solo economiche del nostro Paese.

Non bisogna dimenticare, nello scenario esterno, l’importanza dell’unificazione tedesca. Quell’evento epocale, quella "frattura della storia" era venuta ad agitare il profondo delle acque dell’Europa. L’economia "di mercato" della Germania Ovest doveva assimilare, "digerire" l’economia "di coercizione" della Germania Est, doveva trasferire nei Länder orientali risorse ingenti. E tutto questo mentre due milioni e mezzo di profughi, romeni e jugoslavi, di cittadini, di etnia tedesca, dei vari Paesi dell’Europa orientale si riversavano nelle città e nei villaggi della Germania occidentale.

Il motore dell’economia tedesca, dell’intera Europa, rischiava il fuori giri; all’ardire di scelte politiche coraggiose corrispondeva la pur legittima preoccupazione, e i conseguenti comportamenti, delle istituzioni maggiormente responsabili della stabilità.

Tutto questo proiettava sulle strutture operative dello SME tensioni inusitate. E questo mentre nell’Europa che aveva firmato il Trattato di Maastricht, i dubbi, le incertezze, le preoccupazioni, le diffidenze prendevano corpo nell’esito negativo del referendum danese a giugno e nelle attese del referendum francese di settembre.

Nel nostro Paese la decisione del Governo, formatosi all’inizio dell’estate del 1992 dopo la consultazione elettorale di aprile, di far della tenuta del cambio il perno della propria politica economica fu la scelta che doveva portare al punto di svolta nel processo di risanamento della nostra economia.

Una svalutazione della lira all’inizio di quell’estate sarebbe stata non tanto una resa quanto la vanificazione degli indubbi, anche se troppo lenti, progressi compiuti. Essa avrebbe, sì, allentato per qualche tempo le tensioni che si stavano accentuando, ma sarebbe suonata come il ritorno all’antica sequenza tra svalutazione-aumento dei costi e di nuovo aumento dei prezzi.

Su quell’indirizzo severo di politica economica e valutaria fu raggiunto a fine luglio fra il Governo e le parti sociali l’accordo di moderazione salariale, che costituì il solco lungo il quale un anno dopo poteva essere concordata una organica politica dei redditi e di nuove relazioni di lavoro.

Nel tardo agosto, la situazione dello SME andò sempre più deteriorandosi. Avrebbe potuto risolverla un riallineamento generale, ma questo fu impedito dal timore di influire negativamente sulla scadenza referendaria francese con pregiudizi gravi per l’intera costruzione europea, da eccessi di "orgoglio", da "rigorismi" poco pronti a cogliere lo stato effettivo dei fenomeni reali dell’economia. Si avverò, inizialmente per le valute più deboli, la fine dei Curiazi; ma, anche dopo gli eventi di settembre e per un intero anno, l’accordo di cambio continuò ad essere scosso da frequenti crisi, fin quando lo SME non fu costretto nell’agosto del 1993 ad ampliare la banda a un multiplo, sette volte, di quella originaria.

Certo, prima la svalutazione del 13 settembre 1992 e l’uscita, poi, dallo SME dopo il cedimento della sterlina furono momenti drammatici, e come tali furono e dovevano essere vissuti. La sera del giorno successivo presentai la lettera di dimissioni da governatore. Ma l’atmosfera di dramma in cui si consumarono quegli eventi, la crescente consapevolezza della voragine che stava per aprirsi sotto i nostri piedi, investendo la gestione del debito pubblico, permisero l’adozione di quelle rilevanti misure di correzione di bilancio che il Governo invano aveva cercato di adottare prima.

Così la svalutazione della lira che, se fosse stata assunta quando ancora vigevano le indicizzazioni, senza le forti misure di finanza pubblica, avrebbe significato una ricaduta verso l’instabilità, divenne il punto di svolta verso la stabilità, verso il risanamento della nostra economia.

Attraverso quelle drammatiche vicende, si è giunti all’affermazione della cultura della stabilità; sono stati modificati istituti, è prevalsa nella larga maggioranza degli operatori, dei cittadini tutti, una nuova mentalità.

L’affermazione più importante di questo mutamento di fondo, sia per il contenuto sia per la rilevanza formale, si è avuta nel luglio 1993 con l’accordo sulla contrattazione e sulle relazioni industriali. Con la firma di quell’atto, che ha incentrato la contrattazione collettiva sull’obbiettivo dell’abbattimento dell’inflazione, è stato sancito il sopravvento del nuovo modello che riconosce nella stabilità un bene in sé e la condizione essenziale per uno sviluppo duraturo.

Da allora, il concorso delle tre politiche, dei redditi, monetaria, di bilancio ha operato con evidente sinergia: le condizioni che avevo auspicato nel lontano 1981, parlando all’assemblea della Banca d’Italia, erano divenute operanti.

Della validità del nuovo modello abbiamo avuto prova in occasione della svalutazione del 1995. Un calo rilevante delle quotazioni della lira, del 25 per cento nei confronti del marco, ha avuto moderati effetti sui prezzi. Ancor più, ambedue, svalutazione e inflazione, sono state riassorbite interamente nel volgere di dodici mesi.

Certo è una vicenda che è stata di danno per la nostra economia, interrompendone il cammino verso la convergenza; ma l’avere evitato il riaprirsi di circoli viziosi fra prezzi e costi, proprio in virtù dei mutamenti intervenuti nelle strutture istituzionali e nei comportamenti, è dimostrazione della sinergia dell’operare congiunto della politica dei redditi, di quella monetaria, di risanamento di bilancio. È stata la conferma vissuta di quanto profondo sia il cambiamento avvenuto nel nostro Paese.

Un punto che desidero sottolineare: sulla scelta della liberalizzazione non si è mai tornati indietro, neanche nei momenti più bui dell’ottobre del 1992, quando la crisi giunse a lambire il mercato dei titoli di Stato. Durante il periodo di sommovimento nello SME, altri Paesi europei reintrodussero vincoli sui movimenti dei capitali. Ai risparmiatori italiani venne confermata quella garanzia di libertà.

* * * *

Se al termine di questo rapido "excursus" riguardiamo la filigrana delle alterne vicende della nostra economia negli anni ’80 e ’90 vi leggiamo come motivo conduttore un binomio: la riconquista della stabilità, la creazione dell’Europa.

La stabilità, che fino alla metà degli anni Sessanta il nostro Paese era stato capace di realizzare e di coniugare con un elevato sviluppo.

L’Europa, che dominò nella nostra mente e nei nostri cuori sin dal dopoguerra.

E ora una prima importante realizzazione di un’unica realtà europea, l’Unione monetaria, sta per essere realizzata.

Non intendo addentrarmi nel tema delle motivazioni che, nel contesto storico, spingono alla creazione di un unico Stato europeo; motivazioni particolarmente sentite da chi è nato all’indomani della prima guerra mondiale e che ha vissuto il dramma degli anni trenta e quaranta.

Voglio solo richiamare l’esigenza di creare un’unica realtà economica per poter dare soluzione ai più urgenti e gravi problemi di fondo che ogni Paese europeo ha di fronte.

Due costatazioni principali:

  • l’incapacità di tutti i Paesi europei di utilizzare appieno il proprio potenziale produttivo, incapacità che si traduce in una crescente disoccupazione;
  • il ritardo tecnologico che, a fronte delle maggiori aree mondiali, i Paesi europei stanno di anno in anno accumulando, ritardo sia nell’avanzamento della ricerca sia nella sua applicazione e diffusione nel tessuto produttivo.

La tendenza al declino competitivo dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti e del Giappone, richiede in primo luogo, per essere rovesciata, il superamento della segmentazione tuttora esistente nel mercato europeo e della frammentazione istituzionale.

Di qui l’importanza di accelerare la piena realizzazione del mercato interno europeo e di unificarlo anche nelle sue istituzioni. La creazione dell’Unione monetaria ed economica produrrà le condizioni per l’avanzamento verso una maggiore competitività dell’economia europea e una riduzione della componente strutturale della disoccupazione.

È in questo convincimento che il Governo ha posto quale priorità la partecipazione all’Unione europea.

È una decisione che richiede un forte impegno, impegno che in ogni caso non sarà vano, che già sta producendo effetti positivi.

Il risanamento del bilancio pubblico, che significa riequilibrio dei conti, innovazione delle procedure, riforma della pubblica Amministrazione, è esigenza incontrovertibile. Quanto prima si realizza, tanto meglio è per l’economia pubblica e privata.

L’accelerazione del risanamento, combinandosi con la riduzione dei tassi di interesse e quindi dell’onere dell’ingente debito pubblico, provoca una concatenazione positiva che facilita il riequilibrio dei conti pubblici e ne riduce i costi.

È questo un aspetto che non viene adeguatamente valutato; un vantaggio che già stiamo sperimentando. Certo, raggiungere nel presente anno l’obbiettivo del 3 per cento nel rapporto tra l’indebitamento della pubblica Amministrazione e il prodotto interno lordo è impresa ardua. Lo sappiamo e per questo stiamo operando con determinazione, pronti a ulteriori interventi. Ma sappiamo anche - e questo costituisce una prima risposta a chi dubita che l’Italia, ammesso che raggiunga l’obbiettivo per il 1997, sia in grado di confermarlo per l’anno successivo - che l’avanzo primario necessario sarà nel 1998 inferiore a quello del 1997. E questo perché il graduale diffondersi del calo dei tassi di interesse, ipotizzandone la stabilizzazione sugli attuali livelli, all’intera platea dei titoli del debito pubblico, provoca, a mano a mano che questi vengono rinnovati a scadenza, il ridimensionamento dell’onere complessivo degli interessi sul debito, sia in valore assoluto, sia, ancor di più, in percentuale in relazione al prodotto interno lordo. Riduzione dei tassi d’interesse e necessità nel 1998 di un avanzo primario meno elevato creeranno condizioni di distensione, di disgelo che dal settore pubblico si diffonderanno all’intera economia.

Ai "vantaggi" economici dell’accelerazione, che Governo e Parlamento hanno deciso, si aggiungono - non meno importanti - quelli politici.

L’aver manifestato il determinato intendimento di partecipare all’UME, l’aver assunto conseguenti decisioni hanno accresciuto, di per sé, il peso politico dell’Italia. Quotidianamente, nelle varie sedi comunitarie, si sta procedendo alla costruzione dell’architettura dell’Europa unita: ieri è stata la definizione del "patto di stabilità", delle sue regole, del suo funzionamento; domani si discuterà del "Consiglio di stabilità", dell’opportunità o meno della costituzione di questo organo informale di indirizzo e di controllo della politica economica, che dovrebbe comprendere solo i Paesi partecipanti all’Euro.

Il patto di stabilità è un’iniziativa comune, un vincolo di solidarietà tra i Paesi dell’Unione: impegna a condurre il bilancio pubblico in modo da non spiazzare l’investimento produttivo. Un deficit pari al 3 per cento del PIL, come indicato nel Trattato di Maastricht, sarà nel lungo periodo un tetto massimo da superare solo in momenti di forte debolezza congiunturale o per accadimenti eccezionali. La severità di questo impianto, che è stato approvato all’unanimità al Consiglio europeo di Dublino, non deve spaventare. L’economia italiana è in grado di tornare a sviluppare tassi di crescita più vicini al suo potenziale produttivo, con un bilancio pubblico sano, prezzi stabili, come negli anni Cinquanta.

Si avverte in Europa l’esigenza - anche in relazione all’entrata in attività fra poco più di due anni della prima vera istituzione europea, la Banca centrale, con uno statuto che ne stabilisce il compito primario di perseguire la stabilità e ne garantisce l’autonomia - di rafforzare il contesto istituzionale di governo europeo della politica economica e di assicurare il necessario equilibrio di poteri.

Alla discussione di questi temi, alle conseguenti decisioni - e quelli che ho fatto sono solo esempi - l’Italia ritiene di dover essere presente con pienezza: e la presenza è piena se è manifesto, credibile l’intendimento di partecipare sin dall’inizio alla costruzione a cui si sta attendendo.

L’Italia già oggi è più credibile di ieri: ha decisamente abbattuto l’inflazione, si è guadagnata sul mercato un forte calo dei tassi di interesse, vede la sua valuta mantenersi senza problemi sulla parità centrale: ciò significa il rispetto di tre dei parametri di Maastricht. Sa di essere in condizioni di apportare all’Euro forza, non debolezza, perché sono ormai lontani i tempi delle indicizzazioni; perché ha introdotto una solida costituzione monetaria, basata sulla indipendenza e autonomia della Banca d’Italia, su una politica dei redditi condivisa dalle parti sociali; perché i suoi cittadini sempre più avvertono il vantaggio, la sicurezza di un risparmio al riparo dell’erosione monetaria; perché ha una struttura economica che, pur nelle carenze che vogliamo sanare, è in grado di produrre un forte avanzo di bilancia dei pagamenti; perché non ha debito estero ed è in grado di finanziare con il proprio risparmio il pur ingente debito interno.

Questo incontro con Voi, amici del Forex - di fronte ai quali per tanti anni ho esposto e commentato le nostre vicende economiche, ho tracciato consuntivi e prospettato speranze e preoccupazioni - avviene all’inizio di un anno di straordinaria importanza. Percorriamolo con convinzione, con tenacia, con determinazione, ma anche con serenità. Chiediamo a noi stessi soprattutto coerenza di comportamenti, coerenza con gli obbiettivi che ci siamo posti, ancor più con i valori in cui crediamo. è questa la coerenza alla quale non vogliamo mai venir meno.