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Inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università degli Studi - Roma Tre

17/02/1999

Ho accolto con piacere l'invito del Rettore Professore Guido Fabiani all'inaugurazione dell'Anno Accademico 98/99 della Terza Università, convinto come sono che la cultura, la formazione costituiscano le pietre angolari dello sviluppo di un paese. E la formazione, quale punto centrale per una maggiore duratura occupazione, per una solida crescita, è il motivo conduttore dell'azione del Governo di cui faccio parte.

Sono lieto di essere qui, in questo Ateneo, giovane, in questa Facoltà intitolata a un economista, Federico Caffè, uomo di grandi interessi e di vasta cultura, al di là dei confini della scienza economica.

Non posso non ricordare con Voi Federico Caffè, che ebbi la fortuna di conoscere sin dai lontani anni cinquanta.

Uomo di straordinarie qualità, di indole solitaria ma estremamente disponibile al dialogo, accoppiava orgoglio e modestia. In Lui dominava il rigore morale, che esercitava in primo luogo verso se stesso e che si manifestava nel rispetto profondo, sostanziale e formale, nei confronti del prossimo, soprattutto il prossimo minore, materialmente o intellettualmente bisognoso.

Persona generosa, animato da un profondo anelito sociale, spendeva se stesso senza limiti, salvo poi a ritrarsi con subitanea freddezza se avvertiva nel suo interlocutore insincerità di accento.

Privilegiava il rapporto con i giovani, i quali, pur sapendolo insegnante severo, ne subivano il fascino. Apprezzavano in Lui il grande economista; sentivano in Lui lo spessore umano, che ne faceva uno straordinario educatore.

Se, come è vero, educare significa trasmettere la propria persona, chiunque, coetaneo o più giovane, abbia avuto con Federico Caffè occasione di dialogo, sente che qualcosa di Lui è oggi parte viva di se stesso.

E vengo ora al tema scelto per il nostro incontro: la moneta unica, l'Europa.

L'Euro - la moneta unica di undici Paesi europei - è oggi una realtà. Una realtà, per essere veramente intesa, deve essere colta nelle radici del passato e proiettata con sguardo chiaro nel futuro. Cosa vuol dire, in una prospettiva storica, la creazione dell'euro? È solo un'invenzione mercantile che serve a oliare gli scambi? O è invece parte, come è, di un processo di ampio respiro che può cambiare il volto del vecchio continente? Insomma, quale è il significato profondo di questo avvenimento?

Ad ogni fase, ad ogni passaggio di questi anni lunghi e difficili in cui siamo andati costruendo l'edificio della moneta unica, si è rafforzata la convinzione che quello che stavamo facendo trascendeva il presente, che promovevamo e al tempo stesso eravamo come trascinati da un progetto iscritto nel solco della storia, da un processo di unificazione dettato dal disegno della geografia e dalle antiche comunanze della cultura.

L'Italia, presente fin dall'inizio a tutti gli appuntamenti della costruzione europea, non ha mancato questo ultimo e decisivo passo.

L'Università non è il luogo dove si studia di tutto. È il luogo dove si creano legami fra le parti e il tutto. Un grande scienziato disse che essere universali vuol dire saper vedere l'Universo in una conchiglia. E io vorrei oggi chinarmi con voi su questa conchiglia dell'euro e cercare di riconoscere, nei bozzetti delle banconote e nelle prime sonanti monete che la Zecca italiana, come le sue consorelle europee, sta coniando a marce forzate, la filigrana di un disegno che ha portato i Paesi d'Europa verso un tornante decisivo della loro vicenda storica.

Duecento anni fa, nel 1799, il nobile disegno della Repubblica Partenopea fu cancellato nel sangue col ritorno dei Borboni. E Vincenzo Cuoco, ripercorrendo pochi anni dopo la vicenda di quella rivoluzione, scriveva: "Alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini". Gli ordini, gli ordinamenti consolidano in forme permanenti le idee e le azioni degli uomini. Idee e intuizioni muovono la storia, ma intelligenza e passione civile da sole non bastano. Il metallo fuso dell'idea e dell'azione ha bisogno di essere colato nello stampo delle istituzioni, che serbano la memoria dell'obbiettivo e incanalano l'agire nell'opera collettiva. Tornano alla mente queste parole di Cuoco quando ripercorriamo il dipanarsi, in questo dopoguerra, del filo rosso della costruzione europea.

Una costruzione che è anzitutto un edificio di pace. So che parlare di pace può sembrare, specie per le giovani generazioni, un fatto scontato. In Italia, in Francia, in Germania, in Spagna non c'è mai stata, nel corso della vita di chi ha oggi fino a cinquant'anni, guerra alcuna. Nell'ultimo mezzo secolo, invero, ci sono stati anche in Europa fatti atroci di guerra, ma circoscritti al groviglio balcanico. Non si sono estesi all'Europa nella sua interezza. Nel passato non è sempre stato così - anzi, forse non è mai stato così. Alle due ultime generazioni è stata risparmiata l'esperienza, che la mia generazione ha conosciuto, di quella drammatica lacerazione della società civile che è il conflitto armato. Nella tela dei secoli, questa parentesi di pace è purtroppo l'eccezione e non la regola. Andando indietro nella storia, di cinquant'anni in cinquant'anni, è difficile ritrovare un periodo in cui i Paesi europei abbiano potuto vivere in pace, vivere la pace.

Dal dopoguerra ad oggi, questo periodo di pace è stato accompagnato, e non per caso, da uno sviluppo economico straordinario. Uno sviluppo che è stato parallelo, già dall'inizio degli anni cinquanta, alla ricerca, appassionata e laboriosa, di un'Europa sempre più integrata, sempre più coesa. Il sogno degli europeisti - il pensiero corre a Monnet, Schumann, Einaudi, De Gasperi, Adenauer - era quello di un'Europa unita. Era un disegno di rinascita, tracciato sulle macerie di un'Europa sconvolta da una guerra orrenda, ultimo prodotto di nazionalismi e di antagonismi che affondavano le loro radici in secoli di insensate divisioni, di sanguinosi conflitti.

Come in tante esperienze della vicenda umana, dalle grandi crisi nascono grandi rinascite. "Mai più la guerra", è stato il proposito limpido e coinvolgente che guidò il pensiero e l'azione dei grandi idealisti del federalismo europeo. Ma era un idealismo con i piedi piantati per terra. E fu da questa combinazione di tensioni ideali e di capacità realizzatrici che nacque la scelta vincente dell'integrazione europea. È questo il cambiamento più profondo e più significativo. La storia passata del nostro continente era una storia di confini fatti e disfatti dagli eserciti e dalle alleanze, dalle combinazioni dinastiche e dalle cannoniere. E i confini cambiavano proprio perché erano frutto di politiche di potenza, erano imposti dall'alto.

La scelta dell'integrazione è stata un percorso di lungo periodo, che ha affidato la prospettiva dell'unità e lo sgretolamento delle frontiere all'intensificarsi e al sedimentarsi degli scambi, alle convenienze reciproche dei commerci, all'infittirsi di viaggi, di conoscenze, di comunanze di lavoro e di vita.

Ma gli uomini non bastano, ci vogliono gli ordinamenti. Ed ecco che l'ordinamento di un'Europa integrata comincia a prendere forma: dapprima con la Comunità del Carbone e dell'Acciaio; poi con il tentativo di una Comunità europea di difesa che, allora, non andò a buon fine e che solo in questi mesi è stato ripreso; infine - siamo al 1957 - con il grande evento della costituzione di un Mercato comune. Già in quel trattato di Roma era contenuta in nuce la visione di un'Europa quale comunità integrata. Comunità economica europea, così fu chiamata la nuova istituzione, dove la parola "Comunità", se pur limitata dall'aggettivo "economica", prevaleva su quello e prefigurava una "messa in comune" sempre più ambiziosa.

Dieci anni dopo, nel 1968, i dazi fra i sei Paesi fondatori della CEE erano ridotti a zero. E il successo del Mercato comune era sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che da noi avevano inizialmente osteggiato l'abolizione delle tariffe doganali perché temevano che l'industria italiana non ce l'avrebbe fatta a reggere la concorrenza della Mitteleuropa.

Il filo rosso dell'integrazione continuava così a dipanarsi. L'aver creato un'area di libero scambio e aver fatto di quella intrapresa un successo non faceva altro che render più evidenti gli altri ostacoli che impedivano al Mercato comune di diventare un mercato unico e sollecitava a superarli. Il piano inclinato dell'integrazione spingeva, costringeva quasi, a fare altri passi avanti, rallentati solo da una fisiologica resistenza dei nazionalismi nell'adeguarsi alla nuova situazione.

Di queste resistenze, forse la più difficile a superarsi era quella della rinuncia alla moneta nazionale. La moneta, sentita giustamente come simbolo di identità nazionale, era anche fattore di competitività fra Paesi legati da maglie commerciali sempre più fitte. E negli anni settanta, con il dissolversi dei cambi fissi e il divaricarsi dei tassi di inflazione, l'esistenza di tante monete diventava fonte di contrasti e di divisione nei difficili negoziati per i rimescolamenti valutari. Non solo, quindi, l'esistenza di una pluralità di monete era fattore oggettivo di attrito per la fluidità degli scambi nel Mercato comune, ma diventava anche fattore di sospetto fra le Nazioni europee.

Il Mercato comune insomma aveva chiamato il Mercato unico e il Mercato unico chiamava la moneta unica. Il tentativo del cosiddetto "serpente monetario" dapprima e l'adozione del Sistema monetario europeo nel 1978-79, letti col senno di oggi e con l'arrière pensée dei padri fondatori delle istituzioni europee, non furono altro che le "prove generali" della moneta unica. Nel 1986 viene firmato l'Atto unico europeo, che impegna all'abolizione di tutte le barriere non tariffarie; e poco dopo cominciano i negoziati per il Trattato di Maastricht. Di questo Trattato, firmato nel febbraio 1992, tutti conosciamo i tempi, le vicende e il progetto della moneta unica; ma forse, in una prospettiva storica, l'articolo più importante di esso è quello in cui le parti contraenti "istituiscono fra loro un'Unione europea".

Non più quindi "Comunità economica europea", ma "Unione europea". Cambiamento di nome? No, di sostanza, e a dare corpo alla sostanza ecco che si crea una moneta sola. Il coraggioso progetto della moneta unica cancella con un tratto di penna le monete nazionali - frutto di una storia secolare - e le sostituisce con una moneta nuova e comune.

Ancora una volta, seguendo l'intuizione originale di Jean Monnet, il salto di qualità nell'integrazione fra i popoli prende vesti economiche, si presenta sotto le specie di una riforma monetaria. Ma la moneta è molto di più di un fatto economico. La scommessa si fa audace, perché la moneta è politica, è socialità, è psicologia; in una parola, la moneta è la carta di presentazione di una comunità. La sua sostituzione suscita pulsioni profonde nel conscio e nell'inconscio di tutti coloro che di quella comunità fanno parte.

Su un piano più pratico, la moneta unica imprime un'inclinazione ben più netta al versante dell'integrazione. Gli "ordinamenti", le nuove istituzioni si allargano a cerchi concentrici. E i Paesi dell'euro, uniti nella moneta, sono spinti a estendere e approfondire la collaborazione in tanti altri campi dell'azione pubblica e privata.

Questo procedere a tappe, l'un l'altra legate, sulla via dell'integrazione presenta certo il rischio di rinfocolare, ad ogni passaggio, gelosie e resistenze nazionali. Ma l'affermarsi di una realtà europea non è di per sé in contrasto col mantenimento dei valori nazionali. Al contrario, favorendo la crescita, sottolineando quel che è comune, porta a stagliare con più nitore quel che è diverso. I valori di ogni Paese, di ogni comunità, di ogni autonomia locale diventano ricchezze peculiari nel "tutto" europeo. È questo un punto che desidero sottolineare. L'affermarsi di una realtà unitaria europea allontana le antinomie e i conflitti dei nazionalismi; non attenua, anzi rafforza, l'identità di ogni nazione e l'orgoglio di esserne parte. Il principio unitario si sposa sempre più chiaramente con quello di "sussidiarietà", che è il riconoscimento concreto del valore delle autonomie.

Né è da pensare che l'aver affidato il governo della moneta a una Banca centrale europea pienamente indipendente implichi necessariamente un deficit democratico nell'esercizio della politica monetaria. Le responsabilità della Banca centrale europea ripetono il modello delle responsabilità delle Banche centrali nazionali, anch'esse organismi non eletti e autonomi nell'ambito dei compiti che le leggi - fatte dai Parlamenti - hanno loro assegnato. In ogni ordinamento statuale convivono poteri eletti e non eletti; questi ultimi trovano la loro base democratica in leggi approvate dagli organismi eletti e nell'obbligo di render conto del loro operato ai Parlamenti e alla collettività intera.

Nell'ordinamento europeo che si va configurando molto è fatto e molto resta da fare. È vero che la costellazione presente dei poteri - esecutivo, legislativo, giudiziario e monetario, per aggiungervi il "neo-potere" che si è creato con la costituzione del sistema delle banche centrali europee - non ha la chiarità istituzionale che siamo usi riconoscere negli Stati nazionali. Vi sono sovrapposizioni e confini incerti in alcune competenze. Si tratta di un cantiere e non di una costruzione finita. Ma del cantiere ha il fervore creativo, e questo apparente groviglio istituzionale non impedisce certo il buon governo. Ricorda piuttosto, come osservava recentemente Sabino Cassese, l'esperienza medioevale, quando i poteri erano fluidi, in una convivenza di comuni, istituti feudali, regni, vescovi, impero, papato, con un rigoglio di assetti che ebbe quanto meno il merito di impedire il formarsi di durature tirannidi.

Nell'Europa di fine millennio la creazione della moneta unica obbliga - ed è questo un aspetto positivo del "piano inclinato" delle riforme - a uno sforzo di fantasia istituzionale per creare una controparte governativa di politica economica. A un potere monetario, giustamente accentrato, deve essere posto di fronte un interlocutore governativo che parli con una voce sola: una voce che - come quella della politica monetaria - guardi all'interesse complessivo dell'area dell'euro e non a quello dei singoli Paesi. Ed è ciò che sta avvenendo, dal giugno scorso, con l'operare, all'interno della Consiglio europeo dei Ministri finanziari, di un organismo ristretto ai Paesi dell'euro, il cosiddetto Ecofin a 11. Ecco, in fieri, un esempio del processo creativo generato dal "passo avanti" della moneta unica. Ogni tappa del processo di integrazione diventa trampolino e ragione per la tappa successiva, finché i Paesi vengono condotti, dalla logica delle cose, verso forme di unione che manifestano, sempre più nitidi, i contorni del grande sogno degli europeisti: una Europa politicamente unita e solidale. Un'Europa non dei mercati, ma dei popoli.

Ancora una volta bisogna saper sognare ad occhi aperti. Fuori dal perimetro attuale dell'Unione europea, ma sempre in Europa, si affollano i Paesi che stanno emergendo da una difficile transizione dall'economia di comando all'economia di mercato. È nello spirito del grande progetto di comunità europea quello di allargare i confini all'intero continente. Proprio perché questo traguardo è così importante bisogna perseguirlo in modo da render massime le probabilità di successo. Ed allora, bisogna approfondire prima di allargare. Bisogna prima mettere a punto, nei confini attuali dell'Unione, le istituzioni e le procedure per un efficace governo dell'economia e per una più coesa collaborazione negli altri campi dell'agire pubblico.

Il miglioramento nella qualità dello stare insieme è condizione per ampliare il numero dei Paesi da ricevere nell'accogliente recinto dell'Unione. Non a caso ho usato il termine "accogliente". Perché l'Europa non vuole essere e non sarà una "fortezza Europa": termine, questo, coniato anni fa da chi paventava l'unificazione monetaria come un arroccamento protezionistico di un blocco ricco e compiaciuto. Ma esso potrebbe essere usato anche per dipingere un'Europa somma di egoismi nazionali, chiusa a coloro che vengano a bussare alle sue porte. L'Europa non sarà se non sarà solidale, se non ricercherà, dall'Atlantico agli Urali, i modi e i tempi di una unificazione che allontani per sempre istinti e memorie di tempi antichi, quando i contatti fra i popoli percorrevano le vie sanguinose del conflitto e non le strade pacifiche degli scambi. Una solidarietà si impone anche nel ricercare una dimensione essenziale nei rapporti fra le generazioni e nella valorizzazione dell'ambiente: il dovere morale di trasmettere intatto di padre in figlio il fragile dono delle risorse non riproducibili.

La costituzione di un organismo sovranazionale che trascenda i confini attuali degli Stati nazionali può sembrare cozzi con una tendenza che ha visto di recente la disintegrazione di realtà multiple, quali l'ex impero sovietico. Ma questi eventi hanno costituito la reazione a raggruppamenti innaturali, mantenuti a forza. Ben altra cosa è la realtà dell'Unione europea, frutto di scelte liberamente espresse da governi e da popoli, fondata su basi comuni di civiltà, di storia.

La vera contrapposizione non è fra Stati piccoli e Stati grandi, ma fra forme di governo che lasciano ampio spazio ai valori locali, alle minoranze etniche, e forme di governo che questi valori soffocano. Vi sono vantaggi a essere grandi e vi sono vantaggi a essere piccoli. E la sfida - una sfida che è di particolare attualità per l'Europa - è quella di disegnare istituzioni che permettano di raccogliere i vantaggi del localismo e quelli del centralismo, attraverso l'adesione piena al principio di sussidiarietà e il rispetto delle diversità come arricchimento di tutti. Abbiamo visto come anche in Italia la partecipazione all'euro sia stata vissuta come obbiettivo condiviso dalla larga maggioranza delle forze politiche, rispondente al sentimento di larga parte degli italiani. Una prova in più di come questa tappa dell'integrazione europea sia molto di più di una riforma monetaria; di come vada a toccare i nervi vivi e i gangli nascosti della convivenza civile, facendo riscoprire i grandi temi dell'identità nazionale e proiettando aneliti e pulsioni in uno spazio più grande, in quella cittadinanza d'Europa che ogni nazione del continente va riscoprendo nella propria cultura, nelle proprie tradizioni, nel profondo degli animi.

Abbiamo seguito fin qui il filo rosso dell'integrazione europea, che da mezzo secolo è andato annodando economie e popoli in un ordito sempre più fitto di contatti e di rapporti. Quale sarà la prossima tappa di questo cammino comune?

La costruzione europea è andata avanzando su tutti i fronti, ma il progresso è stato diseguale. Si impongono ulteriori avanzamenti nella politica di difesa e di sicurezza comune, nella politica estera e più in generale, come ho già detto, nel cammino verso una integrazione politica.

Restando nel campo economico, l'obbiettivo sul quale si devono oggi concentrare gli sforzi di ogni Paese e dell'Europa nel suo complesso è quello di combattere la disoccupazione. È il problema più pressante e più angoscioso. Per troppi anni l'economia europea si è trovata, a ogni svolta del ciclo, con un tasso di disoccupazione più alto di quello precedente. Da troppi anni il posto di lavoro è diventato il miraggio dei figli e l'angustia dei genitori, che vedono la nuova generazione crescere nello sconforto, vedono il contratto sociale e la convivenza civile degradarsi nelle difficoltà di inserimento in un mondo del lavoro sempre più difficile.

L'Europa sarà solidale o non sarà. E la prima solidarietà è quella fra chi lavora e chi non lavora. Per questo la lotta alla disoccupazione si salda alla riforma dello Stato sociale. Una riforma che mantenga e migliori quella rete di sicurezza che è vanto della società europea. Ma che riveda quel sistema complesso e disorganico di provvidenze che negli anni si è andato sedimentando nella spesa sociale, spesso sotto pressioni casuali e non secondo un disegno sistematico.

Non vi è contrapposizione fra efficienza e solidarietà. Anzi, la migliore tradizione europea mira a volgere l'imperativo etico della solidarietà in una convenienza per il buon funzionamento dell'economia. L'equità di schemi di protezione rettamente intesi favorisce l'impegno , infonde serenità e fiducia.

Abbiamo bisogno di riorientare le risorse per stimolare ad intraprendere, ad assumere iniziative, per provvedere formazione in favore dei disoccupati di lunga durata, per favorire le conversioni rese necessarie da una stagione straordinaria di progresso tecnologico e dalla redistribuzione internazionale del lavoro.

E in questa opera di riorientamento delle risorse dobbiamo associare al merito il metodo. Dagli altri Paesi europei, in questi anni di risanamento, abbiamo imparato molto. Ma forse abbiamo anche noi insegnato qualcosa. E la lezione più efficace la possiamo ritrovare nel metodo italiano della concertazione. Una pratica, lontana sia dal consociativismo che dalla cogestione, fondata sul rispetto reciproco e su un approccio triangolare - Governo, lavoratori, datori di lavoro - che mira a soluzioni volte a conseguire l'affermazione vera degli interessi di parte nel perseguimento dell'interesse generale. Un metodo che ha permesso all'Italia di tenere testa a due ondate di svalutazione e di inflazione e di affermare il bene pubblico della stabilità dei prezzi.

Di questo metodo non vi è minor bisogno ora che l'attenzione si sposta dal risanamento del bilancio - per il quale le cure non sono finite anche se il più è stato fatto - alle riforme strutturali necessarie perché l'economia possa realizzare tutti i benefici potenziali della moneta unica.

La trasparenza dei prezzi, le opportunità di investimento, le economie di scala possono essere sfruttate solo se il grande mercato dell'euro permetterà un incontro più agevole fra domanda e offerta, di prodotti, di capitale, di lavoro. Dobbiamo continuare a operare per aprire alla concorrenza i settori protetti, per rimuovere privilegi, per incoraggiare la mobilità, per attenuare le rigidità, per migliorare le infrastrutture e cancellare gli ostacoli normativi e regolamentari alla creazione d'imprese. Lo Stato deve essere più Stato, nel senso che deve tornare ai suoi compiti fondamentali di fornitore efficiente di beni pubblici e di regolatore imparziale dell'economia privata, dismettendo l'anomalia di una presenza diretta nel mondo della produzione, giustificata e necessaria solo laddove si manifestino situazioni di monopolio.

Dai dazi alle barriere non tariffarie, dal sistema monetario alla moneta unica, dall'euro all'occupazione e alla spesa sociale, dai sei Paesi agli undici e ai quindici e domani ancora di più: le maglie della costruzione europea si estendono nel tempo e nello spazio.

Nel tempo, perché la coesione dell'Europa attinge dai secoli passati, dalla linfa dell'umanesimo e del cristianesimo, le ragioni profonde di comunanze culturali e le radici intellettuali del processo di unificazione.

Nello spazio, perché le forze centripete dell'Unione europea ne fanno il centro di gravità non solo per i Paesi limitrofi all'area, ma anche per le rive meridionali e orientali del Mediterraneo, dove premono civiltà diverse e popolose, che storia e geografia hanno destinato all'incontro con l'Europa, ripetendo corsi che nei millenni hanno scritto la storia della civiltà. Un incontro che non deve essere scontro, uno scacchiere che è la nuova frontiera, una realtà geo-politica nella quale l'Italia è destinata a giocare un ruolo essenziale di cerniera.

Oggi, e ancor più domani, le impronte delle riforme europee si allargano ormai dall'economia strettamente intesa a istituzioni che abbracciano la società tutta intera, dall'homo oeconomicus all'uomo senza aggettivi, all'uomo disegnato da Leonardo da Vinci e riprodotto sulla moneta di un euro. Ed è appunto quel simbolo che vuole dare la misura dell'agire nella nuova Europa. Un agire a misura d'uomo, che ponga la persona umana al centro di un'Europa dello spirito, linfa essenziale dell'Europa della politica e dell'Europa dell'economia.

Starà a Voi giovani delineare compiutamente e realizzare il disegno dell'Europa del nuovo millennio. Come essa sarà, dipenderà dai valori che sarete capaci di sentire come parte essenziale di Voi stessi, di viverli e di esprimerli nelle Vostre opere.