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12/05/1998

12 MAGGIO 1998

AUDIZIONE DEL MINISTRO SUL DPEF

I. Il Documento di Programmazione economico-finanziaria è stato presentato alle Camere il 18 aprile, con circa un mese di anticipo rispetto al limite temporale fissato dalla legge; con lo stesso anticipo le Camere si apprestano ora ad approvare le risoluzioni con le quali esse esprimono, in modo motivato, la loro posizione sugli indirizzi e sui vincoli di finanza pubblica incorporati nel DPEF.

L'anticipo della presentazione e della discussione del documento è stato, certo, motivato dall'intendimento di dar ulteriore dimostrazione della validità del riequilibrio dei nostri conti pubblici, e dell'impegno a consolidarlo, prima dello svolgimento del Consiglio europeo che ha sancito, il 2 maggio scorso, la nascita dell'euro.

Ma l'anticipo è stato reso possibile dall'avanzamento intervenuto nella prassi di preparazione, di maturazione, di discussione degli atti che formano il complessivo assetto istituzionale, governativo e parlamentare, del bilancio pubblico.

Quest'opera non è certo terminata: la recente riforma della struttura del bilancio si inserisce in questo percorso; deve ancora dare tutti i suoi frutti. Questo vale anche per l'unificazione nel Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica dei due distinti Dicasteri prima esistenti.

Formalmente l'unificazione è già avvenuta, ma i positivi effetti, che Governo e Parlamento si sono proposti con il deciderla, potranno prodursi solo se si sarà capaci - ed è opera di lunga lena - di dar luogo a una radicale rivisitazione delle strutture operative, a una sostanziale riconsiderazione di procedure e modi di lavoro, alla valorizzazione della professionalità dei singoli, al far maturare nelle loro coscienze l'orgoglio del compito individualmente e collettivamente assegnato di attendere alla gestione della "cosa pubblica". È un aspetto del grande tema della riforma della P.A., in cui il Governo tutto è impegnato, in primo luogo il Ministero della Funzione Pubblica.

Tutto questo deve essere vissuto come il ritorno a una interpretazione virtuosa di quanto i Costituenti intesero inscrivere nel sistema con l'art. 81 della Costituzione, il cui contenuto trova ora nuova vita combinandosi con i vincoli europei.

È con questo spirito che occorre svolgere negli anni a venire il filo degli equilibri di bilancio e della legislazione di entrata e di spesa a tali equilibri condizionata; è con questo spirito che occorre rinnovare, in chiave europea, gli strumenti e le procedure del bilancio pubblico in coerenza con le riforme già introdotte e con l'evoluzione delle istituzioni europee.

Se il Parlamento è il luogo del dialogo, dell'ascolto e della decisione; se il Parlamento è il luogo nel quale dialettica degli interessi, comprensione per le diverse ragioni e cooperazione per un fine comune, consentono di maturare le scelte finali e di trasformarle dal livello propositivo a quello dei procedimenti giuridico formali; se tutto questo è vero, come lo è, le modalità con le quali il Parlamento italiano, la maggioranza e l'opposizione hanno operato e stanno operando per l'obbiettivo europeo costituiscono, al di là e ben oltre il raggiungimento dei vincoli finanziari di bilancio, la testimonianza più concreta e alta della nostra vocazione a essere in Europa.

Questo stesso dibattito, che oggi si conclude, ne è ulteriore conferma.

II. Il cammino compiuto negli ultimi tempi nel risanamento della nostra economia è stato così rilevante e rapido da essere definito da molti "sorprendente".

Due anni fa, quando questo Governo iniziò ad operare, l'Italia non era in linea con nessuno dei cinque parametri di Maastricht:

  • l'inflazione era al 4,5 per cento;
  • i tassi di interesse dei BTP a dieci anni erano superiori al 10 per cento; il differenziale con gli analoghi titoli tedeschi era di 350 punti base;
  • la lira era ancora al di fuori dell'accordo di cambio dello SME;
  • il disavanzo pubblico correva ad oltre il 7 per cento del PIL;
  • il rapporto debito/PIL, che aveva raggiunto nel 1994 la punta di circa il 125 per cento del PIL, a fine 1995 era pari al 124,5 per cento del PIL, mostrando solo una leggera tendenza alla discesa.

Le variabili che per prime sono rientrate nei limiti prescritti per la partecipazione all'euro sono state l'inflazione e i tassi di interesse. L'abbattimento dell'inflazione è stato il frutto del radicamento di quella cultura della stabilità, che ha fondamento soprattutto nell'applicazione convinta da parte delle parti sociali dell'accordo di politica dei redditi del luglio del 1993 e nella conduzione di una politica monetaria rigorosa.

Da mesi il tasso di inflazione in Italia è sotto il 2 per cento.

Il calo rapido dei tassi di interesse ha avuto le proprie determinanti principali, fra di loro interagenti, nell'abbattimento dell'inflazione e nel ricupero di credibilità dell'Italia sui mercati, conseguenza a sua volta della fiducia che la linea di politica economica ha suscitato.

Da mesi il differenziale dei tassi a dieci anni dei BTP italiani rispetto a quelli tedeschi si è ridotto a 20-25 centesimi di punto, dai 350 della primavera del 1996.

Terzo parametro: era indispensabile chiedere e ottenere il rientro della lira nell'accordo europeo di cambio entro il 1996. Altrimenti ci saremmo posti automaticamente fuori dell'euro. Chiedemmo e ottenemmo quel rientro a fine novembre 1996, con una parità di 990 lire per marco, superando difficoltà non piccole: di chi avanzava dubbi sulla salute della nostra moneta e di chi voleva imporci una parità penalizzante per la nostra economia.

Certo i parametri più difficili da raggiungere erano per noi quelli relativi ai conti pubblici, disavanzo e debito.

Per scendere di 4 punti percentuali nel rapporto indebitamento/PIL in un solo anno, il 1997, sono state necessarie ben tre manovre nell'arco di dieci mesi, dal giugno 1996 al marzo del 1997. Il Governo sa di dover essere grato alla propria maggioranza, all'intero Parlamento che le ha approvate. Ma il miglioramento, pur considerevole, dell'avanzo primario che da quelle tre manovre è derivato non sarebbe stato sufficiente a raggiungere l'obbiettivo del 3,0 per cento se contemporaneamente non si fosse prodotto quel calo dei tassi di interesse di cui poco fa ho detto.

Su questo operare congiunto delle due componenti del saldo dei conti pubblici, aumento dell'avanzo primario e calo dell'onere per interessi, si fondava la sfida che il Governo ha lanciato quando ha deciso l'accelerazione della politica di risanamento per poter partecipare alla creazione dell'euro sin dall'inizio.

Non è stata una decisione improvvisata. Nella seduta del 16 luglio 1996, nella replica a conclusione del dibattito sul DPEF di quell'anno, così mi rivolsi a quest'Aula. Cito dagli atti parlamentari: "La scadenza nel gennaio 1999 è una data della quale dobbiamo avere piena coscienza: è un passaggio che non possiamo eludere, perché non coinvolge soltanto i parametri dell'economia, coinvolge tutte le sfere della vita civile. Abbiamo venti mesi davanti a noi e non una settimana deve essere perduta; in questo deve unirci uno spirito di orgoglio nazionale, perché l'obbiettivo è largamente condiviso, perché è un obbiettivo che è nell'interesse comune di chi lavora, di chi intraprende, di chi risparmia, di chi studia. La nostra patria non merita di essere sospinta lontano dai paesi più avanzati dell'Europa; sarebbe un danno grave per l'Europa stessa: senza l'Italia l'Europa unita sarebbe squilibrata sotto ogni profilo".

Questo è stato lo spirito che sin dall'inizio ha animato l'intero Governo, in una unità di propositi e di comportamenti che sola può spiegare il risultato conseguito.

Un'ulteriore nota sugli interessi, per dare una dimensione di quanto ha contato e conta il loro calo. Nel 1996 la spesa complessiva pagata dalla P.A. per interessi è stata di 202 mila miliardi: a parità di tassi e tenendo conto della variazione nella consistenza nominale del debito, essa sarebbe dovuta ulteriormente salire. È invece diminuita: è stata di 185 mila miliardi nel 1997 e sarà di circa 164 mila nel 1998.

I conti pubblici registrano, oltre che il disavanzo annuo, il debito che i "disavanzi", cumulandosi nel tempo, hanno generato. È un grosso onere che pesa e continuerà a pesare su di noi, nei prossimi anni.

Quel peso, pur fortemente attenuato dal calo dei tassi d'interesse, dobbiamo cercare di ridurlo il più rapidamente possibile in termini relativi, cioè nel suo rapporto con il prodotto interno lordo.

Dal 1995 il rapporto debito/PIL è in diminuzione: vi contribuiscono, insieme con il calo del disavanzo, i proventi delle privatizzazioni. La alienazione delle imprese pubbliche ha un solo limite: quello di impedire che a monopoli pubblici possano sostituirsi monopoli privati. Al tempo stesso è intendimento del Governo di procedere alle cessioni dei beni demaniali non più rispondenti a necessità funzionali.

Nel 1997 i proventi da privatizzazioni di società di proprietà dello Stato e dell'IRI sono stati di circa 40 mila miliardi di lire, di cui 24.400 sono andati a riduzione dello stock del debito.

L'obbiettivo che ci proponiamo è di far diminuire il rapporto debito/PIL di circa 3 punti percentuali all'anno, così da raggiungere nel 2003 quota 100.

Con la riduzione del disavanzo e del debito il bilancio pubblico torna a essere strumento di politica economica.

III. L'Italia entra nell'euro in condizioni che consentono di confermare la sostenibilità dei risultati raggiunti nel 1997, di prevederne un miglioramento. Nel 1998, l'indebitamento delle pubbliche Amministrazioni è previsto scendere ulteriormente, raggiungendo il 2,6 per cento in rapporto al PIL. Il risultato è ottenuto grazie alla riduzione della spesa per interessi che si attesterà all'8 per cento in percentuale del PIL, 1,5 punti percentuali in meno rispetto allo scorso anno. Il saldo primario in rapporto al PIL si ridurrà per il venir meno di entrate temporanee previste per il 1997: il suo elevato livello (5,5 per cento) rimane, comunque, assicurazione di stabilità finanziaria.

La sostenibilità dei risultati raggiunti dal nostro paese dovrà appunto essere assicurata dalla stabilità nel triennio 1999-2001 del saldo primario in rapporto al PIL, che è previsto si mantenga al di sopra del 5 per cento.

Alla stabilità del saldo primario si accompagnerà l'ulteriore riduzione della spesa per interessi, sia in termini assoluti sia in rapporto al PIL. Si tratta di quel "dividendo" molte volte evocato come risultato di politiche di bilancio virtuose e come conseguenza della credibilità riconquistata sui mercati.

La penalizzazione che per lunghi anni ha pesato sulle nostre possibilità di sviluppo, con un onere per interessi che è giunto a superare il 12 per cento del PIL, tende a scomparire, a mano a mano che il presente livello dei tassi si diffonde all'intera consistenza del debito pubblico. Quell'onere è stato ancora del 9,5 per cento del PIL nel 1997, passerà all'8 per cento nel 1998, scenderà al 6,5 nel 2001.

La riduzione, in presenza, ripeto, di un costante livello di avanzo primario, permetterà sia un'ulteriore riduzione dell'indebitamento netto in rapporto al PIL, che scenderà gradualmente nel triennio sino all'1 per cento nel 2001, sia un alleviamento della pressione fiscale. Il totale delle entrate, tributarie e contributive, in rapporto al PIL è previsto diminuire dal 44,3 per cento del 1997 al 42,9 nel corso del presente anno, per poi portarsi al 42,4 per cento nel 2001. Contemporaneamente, il contenimento della crescita della spesa corrente, al netto degli interessi, a un ritmo mediamente inferiore di un punto percentuale alla crescita del PIL monetario libererà risorse per la desiderata accelerazione della spesa per investimenti, soprattutto nelle aree svantaggiate del Paese. La spesa in conto capitale delle Amministrazioni pubbliche potrà aumentare mediamente di circa il 9 per cento all'anno, passando dal 3,5 per cento del PIL nel 1997 al 4,1 nel 2001.

Alla crescita della spesa per investimenti e alla riduzione della pressione fiscale contribuiranno sia l'evoluzione tendenziale delle poste più rilevanti nel conto economico della pubblica Amministrazione sia le misure di rafforzamento dell'economia previste dal Governo.

Gli interventi addizionali a sostegno dello sviluppo ammonteranno a circa 26.600 miliardi nel triennio e saranno ripartiti per 5.000 miliardi nelle politiche di sviluppo di alcuni settori prioritari, per 15.600 miliardi nelle politiche di sostegno degli investimenti e di ricostruzione delle zone colpite dai terremoti e per 6.000 miliardi nella riduzione della pressione fiscale. A questi importi dovranno ora aggiungersi le somme necessarie per la ricostruzione delle zone colpite dall'alluvione in Campania. Restano e resteranno profondi nei nostri animi il dolore e la commozione per tante vite umane distrutte e per tante famiglie sconvolte da questa calamità.

Per raggiungere gli obbiettivi di indebitamento pubblico e finanziare le misure di rafforzamento dell'economia sarà necessaria una correzione pari a 13.500 miliardi di lire nel 1999: qualora questa correzione sia di natura permanente, occorreranno ulteriori interventi per 4.000 e 2.000 miliardi rispettivamente per il 2000 e per il 2001. Gran parte della correzione consisterà nel contenimento delle spese correnti, con l'obbiettivo di ridurre ulteriormente il peso dello Stato nell'economia e di contribuire in maniera positiva alla formazione del risparmio nazionale. Già nel 1998 è previsto il raggiungimento di un avanzo di parte corrente pari a mezzo punto percentuale del PIL. Il risparmio delle pubbliche Amministrazioni dovrebbe poi crescere gradualmente e raggiungere il 2,9 per cento del PIL nel 2001. In tal modo, il risparmio della pubblica Amministrazione contribuirà alla crescita del risparmio nazionale che potrà essere utilizzato più efficacemente per finanziare investimenti direttamente produttivi. È questo un mutamento di fondo rispetto a una situazione che per decenni è stata caratterizzata da un rilevante assorbimento di risparmio privato da parte dello Stato per finanziare il proprio disavanzo di parte corrente.

Un avvertimento. Non inganni l'entità relativamente modesta delle correzioni necessarie per ricondurre gli andamenti tendenziali entro gli obbiettivi complessivi di disavanzo.

Stiamo passando - ed è un grande avanzamento - da leggi finanziarie incentrate sulla "quantità", cioè sulla entità delle correzioni, a leggi finanziarie di "qualità". Ciò, tuttavia, non renderà più agevole la preparazione, la discussione e l'approvazione parlamentare delle prossime leggi finanziarie.

Preparare e approvare leggi finanziarie di "qualità" implica, per il Governo e per il Parlamento, fare "scelte", decidere un ordine di priorità fra le esigenze del Paese: tutte importanti, tutte utili, ma che non possono tutte insieme essere finanziate, e quindi tutte insieme realizzate.

La scelta di queste priorità, come emerge chiaramente dalla Risoluzione presentata dai Gruppi di maggioranza, deve coinvolgere l'intero sistema delle Regioni e degli Enti locali territoriali; si tratta del tema del cosiddetto patto di stabilità interno, che si lega al completamento del federalismo fiscale, al quale è dedicato uno specifico punto della Risoluzione.

È da condividere in pieno l'esigenza che il vincolo sui saldi di bilancio sia rispettato anche mediante la definizione di procedure e di strumenti che rendano pienamente operante il vincolo stesso nelle decisioni delle Regioni e degli Enti locali, e realizzino il concorso delle Regioni e degli Enti locali nelle scelte e nell'attuazione della politica di bilancio.

IV. Ho detto poco fa che il nostro successo, dichiarato da molti "sorprendente", ci ha imposto il dovere di spiegarlo. Ci siamo adoperati in questi ultimi mesi a dimostrare, in tutte le sedi, la sostenibilità del risanamento, nei conti pubblici e nell'economia intera.

All'esterno dell'Unione europea molti hanno dichiarato "sorprendente" lo stesso successo del varo della moneta unica. E alla sorpresa si aggiungono spesso i dubbi: le economie europee si sono tolte strumenti di flessibilità con la rinuncia alle valute nazionali e a politiche monetarie autonome; hanno costretto le politiche di bilancio nella camicia di forza del Patto di Stabilità.

Ho messo assieme critiche esterne e interne per una questione di metodo. Ho detto in passato che dobbiamo ormai "operare Europa, pensare Europa, sognare Europa". Le cose che vanno e quelle che non vanno devono essere ormai viste in un'ottica europea, come problemi comuni e come obbiettivi comuni. Il dado è tratto; siamo, come suol dirsi, nella stessa barca.

Se l'economia deve servire a qualcosa, deve servire soprattutto a dare un lavoro a chi voglia lavorare. Il creare lavoro è lo scopo ultimo di un sistema economico; e non solo per ragioni puramente economiche, di produzione e di domanda, ma anche e soprattutto per la dignità e l'autosufficienza che il lavoro conferisce. La capacità dell'economia italiana e di quella europea di creare occupazione è sempre stata in cima ai nostri pensieri. Certo, l'azione di Governo è sembrata spesso concentrata solo sui problemi del disavanzo, del rigore, dell'inflazione. Ma, come ho già detto e come vale la pena di ripetere, queste preoccupazioni non erano un allontanamento dall'obbiettivo principale. Eravamo e siamo profondamente convinti che un'occupazione sana e durevole si crea solo se il Paese ha i conti in ordine; si crea solo se l'affanno della precarietà non costringe le politiche economiche a costosi stop and go, che minano le certezze di cui hanno bisogno i piani di investimento delle imprese e i piani di spesa dei consumatori.

Ho detto che siamo tutti nella stessa barca. Ma la barca doveva essere rimessa in ordine prima di affrontare il mare aperto. Abbiamo rinforzato lo scafo, abbiamo calafatato la carena, abbiamo ricostruito remi e timone. Ora possiamo guardare la disoccupazione in faccia. Ma prima di affrontare quel mare e quel compito, vorrei rassicurare coloro che temono, da sponde opposte, l'adeguatezza dei risultati ottenuti. Una prima critica: i risultati ci sono, ma sono sostenibili? Una seconda critica: il Patto di stabilità non configura un eccesso di rigore che toglie ogni elasticità alla politica di bilancio?

Non ho dubbi, già ne abbiamo parlato, sulla sostenibilità dei risultati raggiunti. Certo bisogna consolidarli. La strategia del risanamento non ha mirato semplicemente alla compressione delle spese e all'aumento, in parte temporaneo, delle entrate. All'interno della fase del risanamento vi era un'altra doppia fase: da un lato bisognava ottenere "tutto e subito", per abbassare il disavanzo di quattro punti percentuali del PIL in un anno senza mettere in ginocchio l'economia. Questo "tutto e subito" conteneva - non poteva non contenere - elementi una tantum e faceva affidamento su un calo dei tassi di interesse che riducesse il divario rispetto al livello degli altri paesi europei. Ma allo stesso tempo si avviavano le riforme strutturali, principalmente la riforma fiscale e quella della pubblica Amministrazione; si ponevano le basi per trasformare uno sforzo eccezionale nella normalità di una buona amministrazione.

Nessuno sforzo di rigore, nessun abbraccio delle regole della corretta amministrazione varrebbero a mantenere i conti pubblici sulla retta via se l'economia non riprendesse a crescere. Ecco un'altra faccia della relazione simbiotica fra rigore e sviluppo. Non solo il rigore è precondizione per lo sviluppo, ma lo sviluppo stesso premia il rigore facilitando il raggiungimento degli obbiettivi di bilancio, attraverso sia il rilancio delle attività private e l'aumento delle entrate pubbliche, sia l'attenuazione delle situazioni di bisogno e delle spese di sostegno al reddito.

Di queste relazioni vi è ampia prova nei fatti recenti. In Italia e in Europa, la ripresa è già iniziata. Il tasso di disoccupazione nell'Unione europea, che aveva raggiunto un massimo del 10,8 per cento della forza lavoro a metà dell'anno scorso, ha preso a decrescere, ed è oggi di mezzo punto al di sotto di quel livello. Anche in Italia gli ultimi dati indicano che è stato passato il punto di svolta: l'occupazione ha iniziato ad aumentare.

Il miglioramento degli obbiettivi di disavanzo pubblico, che la Relazione di cassa e il DPEF hanno assegnato per il 1998 e per gli anni seguenti, è permesso, oltre che dalla riduzione dei tassi, anche dal miglioramento delle prospettive di crescita, assieme causa ed effetto della lotta al disavanzo. Allo stesso tempo, i successi sul fronte dell'inflazione e il consistente avanzo nei conti con l'estero assicurano, per l'Italia e per l'Europa, una situazione di assenza di tensioni che dovrebbe sostenere il proseguimento della crescita. L'avanzo con l'estero potrà restringersi: una riduzione è possibile e perfino doverosa in una situazione in cui molti Paesi dell'Asia sono costretti a cercare nell'export il compenso a un crollo drammatico nella domanda interna. Europa e Italia hanno il dovere, attraverso il mantenimento della crescita e l'accettazione di una riduzione nel surplus corrente, di contribuire all'aggiustamento in corso.

Di fronte ai risultati raggiunti, perdono peso le critiche che vedono nel Patto di stabilità una specie di spada di Damocle, pronta a tagliare le speranze di crescita con il filo affilato di un rigore fine a se stesso. Il patto di Stabilità, che non a caso si chiama "Patto per la stabilità e lo sviluppo" rappresenta, al contrario, una specie di garanzia istituzionale che lo sviluppo non verrà interrotto dal disordine dei conti pubblici.

Quale politica, allora, per l'occupazione? L'occupazione, ho detto, comincia a beneficiare della ripresa ciclica dell'economia. Ma quella che dobbiamo aggredire, in tutta Europa e non solo in Italia, è la componente strutturale della disoccupazione. A ogni punto di svolta del ciclo, l'economia europea si è ritrovata con un peso più alto dei senza-lavoro. Nel 1982, con un divario fra reddito effettivo e potenziale dell'1,5 per cento, il tasso di disoccupazione nei Paesi dell'Unione europea era dell'8,5 per cento; quindici anni dopo, nel 1997, con un analogo margine di risorse inutilizzate, e quindi con una situazione ciclica comparabile, il tasso di disoccupazione era maggiore di due punti. Al di là della domanda effettiva, vi sono ad evidenza altri fattori che costringono le economie europee nella minorità della disoccupazione, con il suo tragico fardello di sofferenze umane e sociali.

L'analisi di questi fattori è stata più volte ripetuta. Le terapie sono note: bisogna creare un ambiente favorevole all'innovazione; bisogna che le risorse, umane e finanziarie, possano agevolmente fluire dai settori in declino a quelli in espansione; bisogna che il nostro sistema di protezione sociale favorisca il lavoro, eviti le "trappole della povertà", incoraggi mobilità e flessibilità. Questi giudizi non sono nuovi. Ma forse nuova è la coscienza delle opportunità che la moneta unica schiude per una diversa stagione di crescita; nuova è la costellazione di condizioni favorevoli che dall'assetto istituzionale della moneta unica possono sprigionarsi per porre l'economia europea su un più alto sentiero di sviluppo.

Perché il pieno impiego si possa realizzare è necessario, prima di tutto, che il perdurare in Europa di un così elevato tasso di disoccupazione sia vissuto da tutti, istituzioni e cittadini singoli, come un inaccettabile sperpero di risorse, come una non sopportabile ingiustizia sociale.

È questa un'affermazione che può sembrare generica, addirittura retorica. Non è così. Solo una determinazione profonda, che è in primo luogo consapevolezza intimamente avvertita e partecipazione piena al dramma della alta disoccupazione in tutti i suoi aspetti, può dar luogo a comportamenti, individuali e collettivi, a politiche che, traducendosi in una molteplicità di scelte operative, portino, attraverso quotidiani progressi, alla soluzione di un problema, così grave e complesso, come quello della disoccupazione.

Sono convinto che la chiave dei miglioramenti nell'occupazione sia in larga parte nel disinnesco paziente di tutti quegli ostacoli microeconomici che impediscono il flusso delle risorse, di lavoro e di capitale, da chi le chiede a chi le offre. Ogni Paese può fare l'inventario dei propri ostacoli. E, in omaggio al principio di sussidiarietà, la rimozione degli ostacoli costituisce responsabilità dei singoli Governi. La concorrenzialità è la parola-chiave che può aprire le porte di una maggiore crescita dell'economia europea. L'Unione europea sta prendendo sempre più forma anche nelle istituzioni. Le direttive dell'Unione per la liberalizzazione dei settori protetti stanno attuandosi.

Non dobbiamo guardare alla spesa sociale in modo puramente difensivo e contabile, come a un punto di emorragia della spesa pubblica che deve essere tamponato. La ricerca di una nuova via passa per una riforma della spesa sociale che la renda parte di una politica attiva del lavoro. Penso alle spese assistenziali, per le quali bisogna creare un rapporto più diretto e premiante con forme di lavoro. E penso specialmente alla formazione, alla quale dovrebbe essere riconosciuto, anche contabilmente, il ruolo di investimento in capitale umano.

Ecco allora il compito primo della politica economica nel nuovo sistema dell'euro: come raccogliere i frutti della crescita e allo stesso tempo proteggere i meno fortunati. L'Europa ha una orgogliosa tradizione di protezione sociale alla quale non intende rinunciare. Coloro che restano spiazzati nell'intreccio delle combinazioni produttive hanno diritto alla solidarietà di tutti. La rete di sicurezza sociale deve tendersi per aiutare coloro che sono lasciati temporaneamente ai margini dell'allocazione di risorse, per offrire loro nuove opportunità.

V. In Italia occupazione e Mezzogiorno sostanzialmente coincidono; sono di fatto un unico problema. Ma l'interesse ad affrontarlo e risolverlo è del Paese intero. Tornare a chiudere, dopo la riapertura, grave, degli ultimi anni, il divario di sviluppo tra Sud e Nord vuol anche dire offrire al Nord un'occasione per sviluppare la propria esuberante imprenditorialità, per rafforzare e ampliare, localizzandole anche nel Sud, le proprie imprese, per beneficiare di un più ampio mercato di assorbimento dei propri prodotti.

Ma sta soprattutto al Mezzogiorno esprimere e affermare la propria capacità di iniziativa.

Vi sono segnali - li abbiamo raccolti e indicati nel DPEF - in molte aree del Mezzogiorno di un risveglio di imprenditorialità, non solo nei maggiori centri industriali del passato. Cominciano a manifestarsi capacità nuove, più diffuse; si avverte crescente attenzione ai mercati internazionali. Vi sono segnali di vivacità in aree di attività economica sommersa: non certo quelle basate sullo sfruttamento del lavoro minorile o immigrato, che con più forza occorre reprimere, ma quelle finora sospinte fuori della legalità da normative onerose e dalla pochezza dei vantaggi che esse coglierebbero nella legalità.

Ma accanto ai segnali positivi vi sono anche i rischi. I rischi che della mobilità di risorse finanziarie, materiali e intellettuali che proprio l'Unificazione monetaria promuove, si avvalga prevalentemente il "centro" del sistema economico europeo; dove più alti sono i salari ma anche i rendimenti del capitale. Sarà così se, nelle aree a più basso sviluppo e a più ampia disponibilità di risorse umane, i comportamenti individuali e le politiche non sapranno creare, subito, in questa delicata fase di transizione, "profezie credibili": ossia programmi, progetti, iniziative che, proprio avvalendosi delle risorse sotto-utilizzate, offrano occasioni di rendimento ancora più attraenti di quelle del centro.

Occorre, in primo luogo, uno "scatto" di efficienza, di concretezza della pubblica Amministrazione, dello Stato, delle Regioni, degli Enti locali.

L'indicazione della strategia espressamente diretta allo sviluppo e all'occupazione è il corpo centrale del DPEF. Si tratta di un'azione a tutto campo. Articolata in cinque aree: la sicurezza e la giustizia, la concorrenza e la mobilità, gli investimenti nel capitale sociale, quelli in infrastrutture, la buona e trasparente amministrazione: mirata e adattata, nella sua attuazione, alle singole aree del territorio, per valorizzarne le peculiarità.

Si descrivono, nel DPEF, le singole linee di intervento, indicando le priorità che il governo si è dato. Voglio soffermarmi sul metodo. Quello che dovrà assicurare che ciò che ci siamo proposti venga effettivamente fatto.

Dovranno agire in primo luogo gli strumenti di programmazione, indispensabili affinché, nel campo delle infrastrutture materiali e sociali come in quelli della sicurezza e del patrimonio ambientale e culturale, si passi dai piani generali di intervento alla progettazione esecutiva e, soprattutto, all'attuazione.

Come è apparso ancora una volta chiaro nella recente, drammatica vicenda del suolo campano, è fondamentale, da una parte, l'identificazione dei bisogni e delle priorità; vi sono, dall'altra, le risorse finanziarie, comunitarie, nazionali, regionali, talora non appieno utilizzate. La congiunzione fra questi due poli, che non di rado stentano a toccarsi, dovrà essere data dalla programmazione che sta allo Stato, alle Regioni e agli Enti locali insieme realizzare, utilizzando gli istituti che già esistono: le intese istituzionali di programma Stato-Regioni; la programmazione dei fondi comunitari; gli strumenti volti allo sviluppo dei sistemi locali. Saranno proprio questi strumenti a dare corpo, assieme al rafforzamento delle amministrazioni locali e alla costituzione di sportelli unici di servizio, al decentramento amministrativo avviato.

Con la firma, lo scorso novembre, da parte del Presidente del Consiglio e dei Presidenti delle Regioni Umbria e Marche, del protocollo d'intesa per gli interventi dopo l'emergenza terremoto, è stato messo a punto un metodo sperimentale di lavoro finalizzato alla predisposizione della Intesa istituzionale di programma. Su questa linea andremo avanti con le altre Regioni, fondendo questa direzione di intervento con la programmazione che, nel Mezzogiorno come nel Centro-Nord, stiamo avviando anche per impiegare appieno e nel modo più proficuo i finanziamenti addizionali comunitari.

Ancora una volta la partecipazione all'Europa ci è di sprone e di indirizzo. Nei mesi scorsi abbiamo ottenuto significativi risultati nel colmare i ritardi nell'attuazione dei programmi rientranti nel Quadro comunitario di sostegno 1994-99: si è passati dai circa 5.000 miliardi di spesa del maggio 1996 (8 per cento del totale delle risorse del QCS) agli oltre 23.000 registrati al 31 dicembre 1997, corrispondenti al 38 per cento del costo totale del QCS, in linea con l'obbiettivo fissato nell'ambito delle intese con l'Unione europea. Il conseguimento dell'obbiettivo del 55 per cento entro il dicembre 1998 consentirà di erogare quest'anno ulteriori risorse nelle aree obbiettivo 1 per un ammontare di oltre 11.000 miliardi (5.500 di risorse comunitarie e 5.500 di risorse nazionali).

Ora, nell'avviare programmi e progetti per il nuovo Quadro comunitario 2000-2006 l'Italia ha una grande occasione: utilizzare le procedure dell'Unione, la credibilità e talora la durezza delle sue regole, per imporre un percorso di programmazione degli interventi che, attuando il principio della sussidiarietà, risponda ai "veri" bisogni; che dia attuazione a ciò che si annuncia; che ne garantisca la pubblica verifica. È quanto abbiamo sperimentato nelle scorse settimane, quando il Comitato di Sorveglianza che raccoglie le Amministrazioni regionali, centrale ed europea ha portato unanimemente a compimento il difficile esercizio di riallocare risorse dai programmi, che non riuscivano a tradursi in spesa, a programmi che promettono rapida capacità di spesa, per un importo complessivo di 2.600 miliardi.

Contiamo, intendiamo contare, per lo sviluppo del Mezzogiorno, soprattutto sull'imprenditoria locale, sulla diffusione ampia di quella rete di piccole e medie imprese che ha costituito la base del nostro risveglio industriale negli ultimi decenni e che è considerata dall'intera Europa esempio da imitare. A questo fine il DPEF si impegna a dare nuova forza agli strumenti dei patti territoriali, dei contratti d'area, dei contratti di programma.

Sinora sono stati approvati 12 patti, per un totale di circa 1.200 miliardi, con un'occupazione prevista di 10.600 addetti, di cui 7.000 di nuova occupazione. Ai ritardi di valutazione e di selezione delle singole iniziative stiamo rispondendo oggi con uno sforzo organizzativo e tecnico del Ministero del Tesoro e del Bilancio che consentirà un passaggio più celere alla fase dell'attuazione. Molti altri patti stanno maturando: 20 iniziative hanno chiesto e ottenuto l'autorizzazione all'assistenza tecnica, 15 di esse nel Mezzogiorno; per altre 13 (7 nel Mezzogiorno) è avviata l'istruttoria a opera di banche.

Analogo sforzo, da parte dell'intero Governo, riguarda i contratti d'area. Nei tre già conclusi, di Crotone, Manfredonia e Torrese-Stabiese, sono previsti circa 200 miliardi di investimenti con oltre 1.000 nuovi occupati. Sono prossimi alla stipula due altri contratti d'area per circa 70 miliardi e circa 400 nuovi occupati.

Rinnovata, forte attenzione intendiamo dare allo strumento dei contratti di programma. Essi hanno consentito di realizzare sinora oltre 23 mila miliardi di investimenti da parte di grandi e medie aziende, con oltre 80 mila unità di lavoro (27 mila nuove).

In questo quadro si inserisce l'imminente creazione di uno strumento nuovo. La costituenda società Sviluppo Italia, riordinando e riorganizzando le attività oggi svolte da una pluralità di imprese pubbliche, tutte operanti nell'area della promozione dello sviluppo, mirerà a indirizzare servizi reali e finanziari all'imprenditorialità emergente e ai sistemi locali di sviluppo, per facilitare il ricorso agli strumenti di incentivazione e per promuovere nuovi investimenti, anche da parte di imprese estere.

Onorevole Presidente, Onorevoli Deputati,

non credo di indulgere alla retorica dei sentimenti, di cedere all'entusiasmo al di là del legittimo, se, nel concludere questa replica, affermo che la firma che i Capi di Stato e di Governo, riuniti come Consiglio europeo, hanno apposto il 2 maggio al documento che ha sancito la nascita dell'euro ha un valore storico.

Dal maggio del 1998 per l'Europa, per l'Italia molto cambia, in atto e ancor più in prospettiva: una prospettiva più sicura di pace, di lavoro, di dignità di vita.

La creazione dell'euro è evento eminentemente politico, trascende la pur straordinaria rilevanza economico-monetaria.

Sotto il profilo economico-monetario essa conclude un processo messo in moto venti anni fa con la costituzione dello SME. Già alla sua origine, quel processo mirava a un obbiettivo politico: compiere un passo avanti, decisivo, irreversibile nella integrazione europea.

La moneta unica europea, la Banca centrale europea che la emette e la gestisce, sono il primo momento, veramente unitario, veramente federale, che unisce un ampio, significativo gruppo di Paesi d'Europa.

È un atto di rinuncia, da parte dei singoli Paesi partecipanti, a un'importante porzione di sovranità nazionale a favore della sovranità europea. Si rinuncia, in quanto ci si riconosce in una Patria più ampia.

Le implicazioni economiche sono di grande rilievo. Ancor più le implicazioni politiche: quelle implicite immediatamente alla firma dell'atto; quelle potenzialmente ben più rilevanti che quell'atto dischiude.

È un evento che, nel nostro Paese, congiunge il passato con il futuro, che evoca gli ideali, i valori che furono alla base del Risorgimento, che li ripropone quali motivi ispiratori di scelte che portano al superamento dei nazionalismi, causa con i loro eccessi di tante rovine, attraverso la costruzione di nuovi assetti istituzionali. In essi le varie componenti della realtà europea potranno trovare sistemazione organica, feconda di sinergie in ogni campo dell'attività umana. Si sta scrivendo, e mettendo in opera, una nuova costituzione.

L'Italia doveva partecipare, e partecipa, sin dall'inizio, alla moneta unica, all'euro. Parteciperà attivamente alle vicende, economiche, sociali, politiche che necessariamente seguiranno. Vi apporterà la forza del suo patrimonio di storia, di tradizioni, di valori civili, di ingegno, di operosità. In questa stessa vicenda di genesi dell'euro l'Italia ha dato all'Europa quello di cui l'Unione europea ha maggiormente bisogno: la dimostrazione di quanto un Paese, un popolo, può fare quando si dà un grande obbiettivo, e verso questo obbiettivo impegna le sue energie migliori.

Sul complesso di impegni assunti nel DPEF, il Governo chiede il consenso del Parlamento e del Paese.

Signor Presidente,

per queste ragioni Le chiedo di porre in votazione per prima la Risoluzione presentata dai Gruppi della maggioranza, accolta dal Governo.