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Padoan: l’Unione rischia, così va cambiata e rilanciata

Corriere della Sera - 25/06/2016

di Aldo Cazzullo

Era chiaro da tempo: è il momento di pensare l’impensabile.

Che cosa intende, ministro Padoan?
L’impensabile sta avvenendo. Si è avviata una doppia reazione a Brexit, finanziaria e politica. Ma la reazione finanziaria, almeno finora, è limitata. Mi preoccupa di più quella politica.

Lo spread aumenta, le Borse crollano, Milano perde il 12,4%.
Sono conseguenze dalle dimensioni compatibili con il funzionamento del mercato, sia pure sotto choc; e non riguardano in particolare l’Italia ma tutti i Paesi, soprattutto i settori bancari e i titoli sovrani. Piazza Affari ha avuto un crollo ma a Madrid non è andata meglio e Parigi e Francoforte hanno registrato cali non dissimili. I mercati stanno funzionando regolarmente anche in presenza di queste oscillazioni perché c’è la liquidità necessaria. Merita altrettanta attenzione la reazione politica. Si levano voci dall’Olanda e da altri Paesi del Nord, oltre ovviamente a Marine Le Pen in Francia, che chiedono altri referendum per uscire dall’Europa.

C’è il rischio che l’Unione si sfasci?
Ripeto: dobbiamo pensare l’impensabile. C’è un cocktail di fattori che potrebbe portare a varie soluzioni, compresa un’ulteriore spinta alla disintegrazione. C’è un’insoddisfazione profonda su immigrazione, sicurezza, economia: l’occupazione e la crescita migliorano, ma non abbastanza. E c’è la tendenza a pensare che le soluzioni nazionali funzionino meglio di quelle europee.

Non è così?
Purtroppo c’è del vero, a causa dell’inadeguatezza delle istituzioni europee.

Compreso l’Ecofin?
Nella gestione europea, Ecofin compreso, prevale un atteggiamento quasi di “business as usual”: avanti come sempre. Ma la situazione che viviamo è eccezionale. Dobbiamo ripensare le grandi priorità. Vedremo se il prossimo consiglio europeo darà una sterzata a tutto campo, come dovrebbe.

È il momento di rilanciare l’Europa?
Di rilanciarla e di cambiarla. L’Italia ha fatto le sue proposte. Da mesi è sul tavolo il documento del ministero dell’Economia, fatto proprio dal governo, che dice: le priorità sono l’occupazione, la crescita, il benessere, l’eguaglianza. L’Europa non può occuparsi solo di banche. Le stiamo stabilizzando, continueremo a farlo; ma dobbiamo occuparci anche dei cittadini. Perché qui c’è un problema di consenso sociale diffuso: bisogna che i cittadini ricomincino a pensare che l’Europa sia una buona idea.

Meno tecnocrazia, più politica?
Uno degli aspetti positivi del clima che si è creato è questo: in Europa c’è molta voglia di politica. Ognuno la coniuga in modo diverso, a seconda del Paese o del partito; ma tanti hanno voglia di ripensare i principi fondamentali. Sarebbe la migliore risposta al populismo. Non è il momento di fermarci a riflettere su cosa non va: lo sappiamo, cosa non va. Dobbiamo formulare e attuare l’idea di un’Europa diversa da quella in cui ci troviamo. L’Italia rispetta le regole, ma questo non significa che ci piacciano.

Cosa chiede l’Italia?
Una politica comune che non riguardi solo l’unione bancaria, ma l’immigrazione, la sicurezza e la lotta alla diseguaglianza. La diseguaglianza è aumentata in Europa perché la crescita è bassa. Se si cresce di più, se c’è più lavoro, c’è meno diseguaglianza. La diseguaglianza ostacola la crescita, non la favorisce. Dobbiamo essere capaci di autocritica e collegare meglio crescita, lavoro, welfare ed eguaglianza. A cominciare dalla proposta italiana di un’assicurazione contro la disoccupazione ciclica.

A Londra aveva ragione Farage e avevano torto i sondaggisti che prevedevano il Remain.
L’esito del referendum era imprevedibile solo a chi non vede lo scontento, il disagio sociale, e l’idea, diffusa tra i cittadini, che l’Europa non sia la soluzione ma parte del problema.

È stato un voto contro l’establishment?
È stato un voto contro. Contro l’entità che si chiama Europa e viene percepita in alcuni paesi come fonte di vincoli piuttosto che di opportunità. È più facile trasformare questo sentimento in un No. Il fronte del Remain aveva il problema di trasformare lo scontento in un Sì, e non c’è riuscito. Ha prevalso l’idea, un po’ ingenua, di uscire; senza pensare a come vivrà un grande Paese europeo fuori dall’Unione europea.

Quali saranno le conseguenze per il Regno Unito?
Continuo a pensare che avrà danni economici significativi. Si sentiranno soprattutto nel medio periodo.

E quali saranno i contraccolpi per l’economia italiana? Cosa cambia per noi?
Qualcosa cambia: facciamo parte di un’area integrata. Forse cambia meno che per altri Paesi. Lo ripeto: l’impatto su mercati finanziari, Borse, titoli di Stato non riguarda in particolare l’Italia.

Sarà più difficile per il governo tagliare le tasse, a cominciare dall’Irpef?
Stiamo lavorando su cosa fare degli spazi di finanza pubblica, e continueremo. Brexit certo non ci distoglie. Ma dobbiamo anche essere molto chiari: non è da escludere che in seguito a Brexit, per ragioni indipendenti da noi, il quadro economico peggiori, e ci sia una minore crescita. Questo avrebbe ripercussioni sulla finanza pubblica. Mi auguro di no. Ma è nell’ordine delle cose.

Come impostare un taglio fiscale, una politica di crescita con l’enorme debito pubblico che ci portiamo sulle spalle?
Il debito alto è la conseguenza di problemi irrisolti, che in alcune fasi storiche si pensò di risolvere aggiungendo spesa pubblica per creare consenso. Per tante ragioni, compresi i vincoli europei, questo modello non è più sostenibile. Resto convinto che la via maestra per abbattere il debito siano la crescita e l’occupazione. Certo abbiamo sulle spalle un macigno. Ma dobbiamo continuare sulla nostra strada. Non esistono scorciatoie.

In Italia l’insoddisfazione si esprime con la vittoria dei 5 Stelle.
Il movimento a favore di Brexit è la versione inglese, un po’ sofisticata, del populismo che cresce in tutta Europa. È un movimento per il No: non ci piace quello che sta succedendo; ma non va molto oltre, non ha molto da offrire. Lanciando il referendum, Cameron ha dato al movimento un modo di esprimersi. Che ci sia un dato comune, lo dimostra il fatto che in diversi Paesi i partiti antieuropei hanno tratti di populismo molto marcati; e chiedono referendum per uscire dall’Europa.

A dire il vero i 5 Stelle, che avevano proposto un referendum per uscire dall’euro, ora parlano di rilancio di un’Europa diversa. Che impressione le ha fatto la loro vittoria a Roma e a Torino?
È il combinato disposto di una diffusa insoddisfazione e di un voto di opportunismo. Penso in particolare a Torino, dove al secondo turno il voto di centrodestra si è riversato a sostegno dei 5 Stelle.

Oggi appare ancora più a rischio il referendum di ottobre. Il No esce rafforzato dal voto britannico?
In Italia il modo per battere il No è spiegare perché si fanno le riforme. Il successo delle riforme dipende anche dal fatto che si spieghi alla popolazione perché un Paese deve riformarsi. Questo è vero per tutte le riforme strutturali: per quelle economiche e per quelle istituzionali. La Germania dei primi anni Duemila seppe spiegare le riforme, ci fu una forte iniziativa di creazione di consenso; anche per questo funzionarono e ora la Germania sta meglio di altri.

Lei come spiegherebbe le riforme istituzionali italiane?
Cambiano in meglio la governabilità del Paese. Nessuno può negare che la governabilità limitata del Paese sia stata fonte di inefficienza. L’accumulazione del debito era anche conseguenza della scarsa governabilità: si creava consenso con la finanza pubblica anziché con il ragionamento. Un sistema di regole più efficiente significa un dibattito più efficiente sulle cose da fare, e decisioni più rapide. La stabilità consente ai governi di attuare il programma; poi, se non funzionano, li si manda a casa con le elezioni.

Lei ora si impegnerà nella campagna per il Sì?
Da molto tempo continuo a dire, in tutti i posti dove vado, che le riforme istituzionali sono importanti in sé e sono importanti per l’economia. Questo nella discussione non lo sento, sento anzi gente dire che le riforme non servono a niente. Mi impegno e mi impegnerò a far sì che gli italiani le approvino.

E se a novembre in America vincesse Trump?
Avremmo un mondo ancora più complicato. Avremmo alla Casa Bianca un populismo all’americana, più duro ancora di quello che si è espresso con Brexit: un vero populismo brutale. Basta vedere i temi e i modi della campagna elettorale.