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Lectio Magistralis del ministro Padoan al Premio Best in Class

16/05/2018

Il contesto

La valutazione, sia pur provvisoria e iniziale, della politica economica di (quasi) una legislatura richiede di considerare innanzitutto il contesto in cui tale azione si è dipanata. A maggior ragione quando, come in questo caso, la fase storica, sociale ed economica in cui si colloca è particolarmente complessa.

Il contesto in cui si è articolata la politica economica durante la passata legislatura è stato dominato da quattro “fattori”.

In primo luogo l’eredità del passato. La legislatura ha avuto a che fare con una economia italiana in affanno già da due decenni (ben prima dello scoppio della crisi finanziaria). Affanno che si può riscontrare nell’andamento negativo della produttività, causato in gran parte da ostacoli strutturali all’investimento; e dalla marcata accentuazione degli squilibri tra territori, tra generazioni, tra classi di reddito. Insomma il passato consegnava alla legislatura una crescita debole e non inclusiva.

Questa struttura debole si è poi imbattuta nella crisi finanziaria, secondo fattore rilevante. Iniziata negli USA alla fine del decennio passato, in Europa ha avuto la sua manifestazione (e il suo aggravamento) nella crisi dell’euro. Una crisi finanziaria che nel caso italiano si è manifestata come crisi del sistema bancario, vista la struttura del modello di finanziamento dell’economia. Una recessione prolungata e profonda, con una caduta del livello di produzione industriale del 25 per cento, ha infatti innescato una crescita significativa delle sofferenze bancarie, mettendo in evidenza una fragilità diffusa nel sistema del credito che ha influenzato la capacità di reazione dell’intero sistema economico.

Il terzo fattore, in parte conseguenza del precedente, è la trasformazione istituzionale dell’area dell’euro con l’avvio dell’Unione Bancaria. Si sono modificati in maniera radicale e in senso molto restrittivo i confini e le modalità dell’azione di sorveglianza e gestione delle crisi da parte delle autorità nazionali, oltre che i comportamenti degli intermediari e dei risparmiatori.

Infine, quarto fattore, la risposta alla crisi adottata dall’Europa ha privilegiato le, pur necessarie, misure strutturali di potenziamento dell’offerta aggregata, piuttosto che il sostegno della domanda aggregata come invece è accaduto negli Stati Uniti.

Per dirlo in altri termini, su una economia, quella italiana, in cui la crescita potenziale (l’offerta aggregata) stava decelerando già da tempo si è abbattuta una violenta caduta della domanda aggregata, che ha finito per ripercuotersi anche sulla offerta aggregata riducendone ulteriormente la crescita. Una spirale recessiva di dimensioni epocali.

In un contesto del genere, la dinamica della crisi è stata a dir poco complessa. La recessione è stata profonda e di lunga durata. In termini cumulati la perdita del prodotto interno lordo è stata superiore a quella verificatasi durante la grande depressione del 1929. Gli occupati si sono ridotti di circa 900 mila unità, gli investimenti sono crollati del 28 per cento e il rapporto tra debito pubblico e PIL è aumentato di trenta punti, in buona parte a causa della caduta del denominatore. La crisi ha lasciato ferite profonde sul tessuto industriale e sulla coesione sociale, provocando una riduzione della base produttiva.

Il catching up della crescita dopo la recessione è stato più lento e meno pronunciato che in altri paesi. La ripresa non ha (ancora) permesso di attenuare le diseguaglianze. La lunga crisi del sistema bancario ne ha paralizzato la capacità di finanziare l’economia. Si è confermato che le crisi finanziarie, dove caduta della domanda aggregata e dell’offerta aggregata si influenzano a vicenda, sono molto più lunghe e difficili da superare rispetto ad altri tipi di recessione.

La politica del “sentiero stretto”: conciliare sostegno a crescita e occupazione con riduzione del debito

Di fronte a un quadro del genere le esigenze della politica economica si sono necessariamente manifestate come molteplici e interconnesse: per un verso l’esigenza di recuperare crescita e occupazione, per l’altro quella di affrontare le fonti di vulnerabilità che si possono sintetizzare in quattro punti principali: debito pubblico elevato, sistema bancario da riparare anche per via delle sofferenze crescenti, disoccupazione in crescita, disagio sociale elevato. Per riprendere il linguaggio precedente, la politica economica ha dovuto porsi il problema di sostenere sia la domanda che l’offerta aggregata, in un quadro di consolidamento della finanza pubblica e di messa in sicurezza del sistema bancario. Di conseguenza la strategia economica è stata multidimensionale, e caratterizzata dalla ricerca di un equilibrio fra l’andamento e la composizione degli aggregati di finanza pubblica. Non solo: era indispensabile ricercare sinergie tra misure di finanza pubblica e misure di riforma strutturale, oltre che interventi strutturali e specifici per affrontare le criticità del sistema bancario. Un sentiero stretto che ha conciliato l’obiettivo di fornire sostegno alla crescita e all’occupazione con quello di perseguire il consolidamento delle finanze pubbliche. Semplificando: il sentiero stretto ha permesso di intervenire sull’andamento della domanda aggregata mentre le misure strutturali hanno impattato, e impatteranno, sull’offerta aggregata.

L’elevato debito pubblico non ha permesso che la politica di bilancio prescindesse dalle esigenze di riduzione del disavanzo ma a queste esigenze si è fatto fronte con una corretta impostazione del ritmo di consolidamento. Soltanto così sarebbe stato possibile agevolare la ripresa dell’economia e garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche, all’interno del quadro di regole fiscali europee e in presenza di un continuo scrutinio dei mercati finanziari.

Un processo di aggiustamento del disavanzo troppo lento sarebbe stato inefficace ai fini della riduzione del rapporto tra debito e PIL, mentre una fiscal stance troppo restrittiva avrebbe finito per frenare la ripresa, generando, nel lungo termine, effetti controproducenti proprio sulla sostenibilità del debito. Al posto di una self-defeating fiscal consolidation abbiamo proposto una interpretazione italiana della growth-friendly fiscal consolidation. Una dottrina che ha conquistato consensi nelle istituzioni europee anche grazie all’azione e alle proposte della presidenza italiana nel secondo semestre 2014.

Ad aggravare lo scenario di una fiscal stance restrittiva avrebbero contribuito anche la debole dinamica dei prezzi e gli elevati moltiplicatori di bilancio, anche alla luce della sostanziale impossibilità di agire sui tassi di mercato da parte della banca centrale (dato lo zero bound), delle difficoltà del sistema creditizio e dell’incertezza sulle prospettive dell’Eurozona.

Come detto, in questa strategia economica multidimensionale ha avuto un ruolo essenziale l’azione volta a rimuovere gli ostacoli strutturali alla crescita e all’occupazione, sia direttamente dal Ministero dell’economia e delle finanze, sia appoggiando le iniziative intraprese in altri Ministeri. In altre parole, è stata adottata una visione organica e strutturata secondo, un approccio “whole of government”: di “governo nella sua interezza”.

Rinvio ad altre sedi la descrizione dettagliata delle misure strutturali introdotte durante le legislatura ma ritengo opportuno elencarle almeno per titoli per rendere giustizia ad una stazione di riforme ampia e prolungata:

  • Le misure strutturali per il sistema bancario, composta da riforma delle banche popolari e delle banche cooperative nonché auto-riforma delle fondazioni bancaria;
  • Il programma Finanza per la crescita, che ha moltiplicato i canali di accesso al finanziamento per le imprese di piccole e medie dimensioni e ha introdotto miglioramenti alla governance delle imprese;
  • La realizzazione di un sistema fiscale semplificato, più equo, trasparente e orientato alla crescita;
  • Un rinnovato impegno nella lotta all’evasione fiscale, incentrato sul rafforzamento del rapporto cooperativo tra contribuenti e amministrazione,
  • La riforma del mercato del lavoro volta alla creazione di occupazione e al rafforzamento dei contratti a tempo indeterminato
  • una riforma della giustizia civile volta a semplificare e a ridurre tempi e modi del contenzioso
  • la riforma della pubblica amministrazione
  • la riforma della scuola
  • il contributo alla riforma istituzionale dell’Unione Europea e della eurozona

La strategia complessiva delle riforme e i suoi effetti

  • Si tratta, di interventi che fanno parte di una strategia volta a generare dinamiche virtuose per innalzare la crescita potenziale dell’economia italiana. Di interventi che per loro natura richiedono del tempo per dispiegare i loro effetti, ma che hanno già mostrato i primi segni positivi.

L’esperienza di altri paesi indica che la efficacia delle politiche di riforma strutturale è accentuata quando si riesce a raggiungere una “massa critica”. Concentrare le riforme in una sola area di intervento, per quanto prioritaria, potrebbe rivelarsi insufficiente soprattutto nel lungo periodo. Nel caso del business environment, ha funzionato la sinergia tra riforme distinte ma concorrenti nel creare benefici a favore del clima d’investimento: riforma della giustizia civile e riforma del settore bancario, misure di differenziazione delle fonti di finanziamento per le piccole e medie imprese, interventi per favorire l’assorbimento dei crediti in sofferenza.

Ma le misure di carattere strutturale nella maggior parte dei casi producono effetti differiti nel tempo. È tuttavia possibile anticipare i benefici delle riforme e amplificarne gli effetti, accompagnandole con una serie di interventi mirati, da realizzare con una chiara sequenza temporale. Il Jobs act per esempio è stato accompagnato da un incentivo fiscale alle assunzioni che ha prodotto effetti subito dopo l’introduzione del nuovo quadro normativo.

Per rilanciare gli investimenti pubblici e privati, che producono effetti sia sulla domanda che sulla offerta aggregate, è stato necessario combinare le due leve: tanto la sinergie tra riforme simultanee quanto l’ausilio di misure specifiche capaci di anticiparne gli effetti.

Per stimolare gli investimenti privati sono stati introdotti pacchetti di incentivi fiscali che hanno spinto le imprese ad accrescere il capitale proprio investito, migliorare la struttura finanziaria ed espandere la capacità produttiva. Le misure adottate per favorire questi obiettivi hanno fatto parte di due programmi, tra loro collegati: Finanza per la Crescita e Industria 4.0.

Parallelamente, sono stati adottati provvedimenti per invertire la tendenza al drammatico calo degli investimenti pubblici, che avevano perso quasi il 30 per cento del loro livello pre-crisi. L’azione di consolidamento degli anni precedenti aveva infatti inciso in maniera significativa sulla spesa in conto capitale in ragione soprattutto della contrazione degli investimenti delle amministrazioni locali. È stato superato il patto di stabilità interno con il passaggio al principio dell’equilibrio di bilancio ed è stato istituito un fondo per la spesa in investimenti infrastrutturali che dispone di una dotazione complessiva di risorse pari a 83,7 miliardi da utilizzare tra il 2017 e il 2033.

[Una strategia di politica economica incentrata sul rilancio della spesa per investimenti pubblici sarebbe particolarmente efficace grazie all’impatto elevato che questi hanno su crescita ed occupazione in particolare nel contesto macroeconomico di questi anni]. L’azione del Governo è (sostanzialmente) riuscita ad arrestare la caduta degli investimenti pubblici ma la transizione alla nuova disciplina degli appalti pubblici, l’avvio rallentato della nuova programmazione dei fondi strutturali europei e la perdita di capacità progettuale delle amministrazioni hanno impedito di valorizzare al meglio le risorse stanziate. Si tratta di uno dei nodi da affrontare nel prossimo futuro visto anche il sostanziale beneficio che ne deriverebbe in termini di crescita potenziale ed effettiva.

Cruciale per la crescita dell’economia e la sostenibilità di lungo termine del debito è la composizione del bilancio pubblico. Sotto questo punto di vista, oltre a favorire la spesa in conto capitale, la composizione delle leggi di bilancio è stata focalizzata sulla riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese. Mentre diversi interventi sul fronte del contenimento della spesa pubblica hanno assicurato l’equilibrio dei conti.

Tra questi, in fase di prima applicazione, si segnala la riforma del processo di bilancio che (i) offre al Parlamento, agli altri decisori pubblici e alla pubblica opinione una nuova e più chiara lettura degli effetti delle politiche fiscali e dell’allocazione complessiva delle risorse pubbliche, (ii) coinvolge più pienamente i ministeri di spesa nelle scelte a valle e a monte della Legge di bilancio e (iii) avvia in maniera sistematica il monitoraggio e la valutazione ex-ante ed ex-post delle decisioni di spesa dando un deciso impulso al processo di spending review.

Le manovre attuate in questi anni si sono date anche l’obiettivo di migliorare l’inclusione sociale. Gli sgravi per l’occupazione e la riforma del mercato del lavoro - con gli interventi finalizzati ad incentivare i contratti a tempo indeterminato e con il rafforzamento degli ammortizzatori sociali - sono parte integrante di questa strategia, così come l’introduzione del primo strumento di contrasto alla povertà nella storia repubblicana, il reddito d’inclusione (REI). Allo stesso tempo, la riforma del bilancio ha introdotto due importanti novità: il bilancio di genere, con l’obiettivo di rendere esplicite le implicazioni di genere delle scelte di finanza pubblica; e l’obbligo per i Governi di prendere impegni programmatici su il governo di monitorare dodici indicatori di benessere equo e sostenibile relativi a temi quali disuguaglianze, salute, istruzione, ambiente, sicurezza. L’Italia è ora il primo e unico paese ad avere inserito il benessere nel ciclo di programmazione economico-finanziaria.

L’orientamento nei confronti del quadro normativo e istituzionale europeo

Come si notava sopra, la capacità delle scelte politiche italiane di incidere sull’economia nazionale è dipesa anche dall’assetto istituzionale che caratterizza la governance economica europea, soprattutto dell’Eurozona. Il Governo ha tenuto un atteggiamento molto attivo presso le sedi istituzionali europee con l’obiettivo di introdurre rilevanti innovazioni nel dibattito, in vista del progetto di riforma dell’Unione. Si è operato con successo affinché l’interpretazione del Patto di Stabilità e Crescita fosse maggiormente orientata alla crescita attraverso la promozione delle riforme, degli investimenti e grazie ad una lettura più adeguata delle condizioni macroeconomiche. Un orientamento che ha conquistato flessibilità al percorso di consolidamento, e che ha anche posto il problema dell’adeguatezza degli indicatori utilizzati, quali l’output gap. È stata sostenuta l’introduzione del Piano di Investimenti per l’Europa (noto come Piano Juncker), del quale l’Italia è stata tra i primi promotori e i principali destinatari[1]. Più in generale, l’Italia ha presentato una proposta organica di riforma della governance economica che ha contribuito a orientare il dibattito in Europa, in primis con la proposta di introdurre un Fondo europeo contro la disoccupazione ciclica.

Sul fronte bancario, gli interventi adottati a fronte delle crisi di alcuni intermediari sono stati effettuati nell’ambito di una strategia che ha avviato il processo di consolidamento del settore ed ha richiesto un’interlocuzione intensa, attiva e creativa e non sempre facile con le autorità europee preposte ad applicare l’Unione Bancaria. Su tale fronte occorre continuare a favorire il consolidamento e ammodernamento del sistema bancario, mantenendo aperta l’interlocuzione con le autorità europee nell’ambito della Banking Union e della Capital Market Union.

Da ultimo, insieme al Ministero delle Finanze tedesco è stata avanzata una proposta di riforma del bilancio volta a finanziare beni pubblici europei quali il controllo dei flussi migratori alle frontiere, la difesa comune, la sicurezza, gli investimenti ad alto valore aggiunto. Tutti obiettivi che si ritrovano nella recente proposta di Bilancio della Commissione Europea .

I risultati

L’articolata azione di politica economica e di riforme ha permesso all’Italia di uscire dalla crisi, agganciando la ripresa dell’economia globale ed europea. Non abbiamo ancora raggiunto i livelli antecedenti la crisi ma abbiamo recuperato circa la metà del prodotto perso a partire dal 2008, creato più di un milione di posti di lavoro in buona parte con contratti a tempo indeterminato, dato impulso agli investimenti privati che sono cresciuti più del 10 per cento, favorito la riduzione dei crediti deteriorati di circa il 30 per cento negli ultimi due anni. Si tratta di risultati raggiunti mentre la gestione delle finanze pubbliche consentiva di stabilizzare prima e poi invertire l’evoluzione del rapporto tra debito e PIL, cresciuto ininterrottamente di trenta punti nei sette anni precedenti, mentre si riduceva l’evasione fiscale e si diminuiva il carico tributario e contributivo su famiglie e imprese.

Il programma di privatizzazioni avviato dal Governo nel 2013, successivamente consolidatosi nel biennio 2015-16, ha consentito di i) assicurare un nuovo e più competitivo assetto industriale alle società oggetto delle operazioni di privatizzazione nei mercati di riferimento; ii) migliorare la governance, anche sottoponendo il management al vaglio dei mercati e di valutatori terzi; iii) contribuire alla stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e PIL. Il programma ha riguardato non solo le partecipazioni direttamente detenute dal MEF, ma anche quelle indirette (Raiway, Fincantieri, Grandi Stazioni).

Molti osservatori ricordano alcune delle condizioni in cui si è realizzata l’azione di politica economica che ho descritto. In primis la ripresa globale e la politica monetaria accomodante tenuta dalla Banca centrale europea. Sono certamente condizioni favorevoli. Tuttavia non va sottovalutato che alcuni orientamenti delle autorità europee, dal quantitative easing alla flessibilità di bilancio, sono stati resi possibili anche dalla strategia adottata dal terzo paese più importante dell’Eurozona – e dell’Unione europea dopo l’uscita del Regno Unito. Per tutta la legislatura l’Italia è stata guidata secondo principii di responsabilità nazionale ed europea e nella direzione di riforme irrinunciabili.

Credo di non poter essere smentito se affermo che atteggiamenti diversi da parte del nostro Paese avrebbero reso impossibili gli orientamenti qui richiamati da parte delle istituzioni europee.

Lezioni da trarre

Da queste evidenze è possibile trarre alcune prime, provvisorie, lezioni.

  • Innanzitutto, vista la complessità crescente dell’ambiente in cui si colloca la gestione dell’economia è sempre più necessario: i) un approccio sistemico e multidimensionale.
  • Aspetti strutturali e macroeconomici devono essere considerati assieme per individuare le sinergie possibili.
  • Domanda e offerta aggregate si influenzano reciprocamente.
  • ii) L’orizzonte temporale deve essere lungo per dispiegare i processi di attuazione e beneficiare in pieno dell’impatto delle riforme.
  • iii) La pubblica amministrazione deve essere posta al servizio delle riforme. Le migliori norme di riforma sono del tutto inutili se la macchina della pubblica amministrazione, statale, regionale o locale non le traduce in attuazione. La riforma delle PA è la riforma per fare le riforme.

Mettere a punto la strumentazione è solo il primo passo. Per decidere se si debba o meno proseguire nella politica adottata o se e come tale strategia si debba cambiare occorre valutarne l’impatto. Valutare l’impatto delle misure di politica economica è sempre un esercizio complesso, in particolare quando la strategia coinvolge più elementi. Innanzitutto l’andamento delle variabili dipende, anche, da fattori che non sono sotto il controllo del policy maker (come la domanda mondiale) e non è semplice separare il contributo di queste dalle variabili che invece sono sotto il controllo del policy maker.

Inoltre i canali di trasmissione dalla policy (strumenti) ai risultati (obiettivi) non sempre sono ben compresi e possono essere di durata e complessità maggiori di quanto atteso. Ne segue che spesso non è chiaro se lo strumento (le riforme) è ragionevolmente efficace. In quarto luogo, su date variabili-obiettivo impattano diverse variabili di policy (in alcuni casi con effetti che sono in contrasto invece che di reciproco sostegno).

Un esempio istruttivo della complessità del processo di policy sono, di nuovo, le riforme strutturali. Il processo di riforma inizia con l’adozione delle misure da parte del governo, segue l’approvazione in Parlamento, la definizione del processo amministrativo, la sua implementazione, l’impatto sul comportamento del mercato (delle famiglie, delle imprese), i risultati in termini di decisioni (di spesa, di investimento, ecc). Possono passare alcuni anni, a volte anche molti prima che il ciclo si completi. L’impatto, poi, dipende dal quadro macroeconomico in cui le riforme vengono introdotte (di solito l’impatto è più forte nelle fasi espansive). E questo è determinato in buona parte dal quadro internazionale.

Una strategia di riforme, per tradursi in risultati concreti deve poter avere respiro lungo, ma ciò richiede di mantenere il consenso. Il mantenimento del consenso per le riforme, e quindi per la continuazione di una politica riformatrice, è reso complesso dall’asimmetria tra ciclo delle riforme e percezione dei benefici: l’annuncio delle riforme crea un’aspettativa di risultati immediati mentre i benefici si manifestano soltanto molto tempo dopo l’annuncio. Inoltre il policy maker può commettere l’errore di guardare ai risultati aggregati, spesso attraverso il filtro di indicatori sintetici come le medie, sottovalutandone la distribuzione. Il cittadino guarda invece ai benefici individuali, realizzati e attesi. Queste due prospettive possono essere tali da portare a conclusioni diverse, al limite divergenti, sulla bontà della politica adottata.

Infine occorre considerare che l’impatto dei benefici può essere diverso da quello atteso non per un vizio nel disegno della policy ma per un funzionamento “distorto” dei canali di trasmissione. Ne può conseguire una caduta di consenso che spinge l’ambiente politico a disfare le riforme introdotte e magari ricominciare daccapo anziché dedicare tempo e cura a una corretta attuazione del disegno originario.

Conclusioni

L’uscita dalla crisi e la ripresa delle crescita è solo il primo passo sulla via per il rilancio dell’economia italiana. Tornare ai livelli raggiunti prima della crisi è un obiettivo alla portata della comunità nazionale. Ma non ci si può accontentare. Occorre portare il ritmo della crescita effettiva e potenziale ai valori precedenti alla crisi, possibilmente a valori vicini a quelli della crescita degli anni migliori della fine del secolo scorso. Ciò è possibile se si considera che le nuove tecnologie legate alla digitalizzazione, ma anche alle biotecnologie e alle scienze umane, sono il presupposto per un balzo in avanti della produttività. Ma occorrono le politiche giuste. Occorre rafforzare (invece che disfare) lo sforzo di riforma allo scopo di aumentare il tasso di crescita potenziale (la crescita della produttività). Ciò richiede più capitale: umano, materiale, immateriale e infrastrutturale. Quindi occorre rafforzare il meccanismo di produzione e diffusione dell’innovazione. Occorre aumentare la resilienza e la flessibilità del sistema. Questo permetterà di colmare il gap con gli altri paesi, in primis con i partners dell’Unione europea. La crescita della produttività richiede anche un quadro di stabilità. Ciò comporta accrescere la stabilità finanziaria sia in termini di minor debito pubblico che di miglioramento della situazione delle banche. Tutto ciò richiede di proseguire nella doppia prospettiva del sentiero stretto, che si può e si deve allargare, e dello sforzo di riforma strutturale. E permette di sostenere simultaneamente domanda e offerta aggregate.

Ma bisogna rendere la crescita veramente inclusiva. Aumentando le risorse ma soprattutto migliorando gli incentivi al lavoro e per sostenere la crescita del tasso di occupazione, soprattutto giovanile e femminile. Nel formulare la strategia di politica economica occorre dare più spazio a obiettivi (e relativi indicatori) rappresentativi del grado di benessere. Gli indicatori di benessere equo e sostenibile introdotti nel DEF dal Governo italiano sono un passo concreto nella direzione giusta. E finora l’Italia è unico tra i paesi industrializzati a presentare previsioni e darsi obiettivi di policy per alcune dimensioni del benessere equo e sostenibile.

Vi è infine una fondamentale agenda Europea su cui si prenderanno decisioni cruciali nelle prossime settimane e cui si può solo accennare per sommi capi. L’Unione Europea si trova in una situazione di difficile transizione. Occorre affrontare le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione a cominciare dal rilancio dell’Unione del mercato dei capitali e al rafforzamento del mercato unico. Occorre un rafforzamento dell’Unione europea e della zona euro che produca un compromesso solido tra stabilità e crescita, che permetta di accrescere domanda e offerta aggregate.

Dal lato della domanda occorre introdurre una dimensione di bilancio aggregata nell’unione monetaria, di sostegno e complemento della politica monetaria unica. Ciò richiede stabilità finanziaria e rafforzamento dell’offerta aggregata, da perseguire con un deciso programma di riforme strutturali a livello nazionale e a livello europeo (a cominciare dal completamento del mercato interno digitale, dell’energia e delle infrastrutture). Occorre completare l’Unione Bancaria trovando un equilibrio ragionevole tra riduzione del rischio e condivisione del rischio.

Infine ma non per ultimo, occorre dotare l’Europa di risorse per la produzione di beni pubblici europei quali la gestione dei confini e dei flussi migratori, la difesa e la sicurezza comune, uno sforzo innovativo che sfrutti tutte le potenzialità del capitale immateriale. Un nuovo bilancio dell’Unione disegnato lungo queste linee è il primo passo necessario in questa direzione.

L’agenda è complessa e ambiziosa. Ma non potrebbe essere altrimenti vista la portata delle sfide che si sono materializzate negli ultimi decenni e che ancora fanno sentire i loro effetti. È una agenda che si deve che si può affrontare con successo, facendo leva anche sui risultati positivi ottenuti negli anni alle nostre spalle. Diverso sarebbe il caso se si decidesse di cambiare radicalmente direzione, magari smantellando riforme importanti e decisive che sono già state introdotte o indebolendo il processo di stabilizzazione e di crescita.


[1] Ad oggi l’Italia risulta essere il secondo paese a livello Europeo beneficiario Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS), per un totale di €7,2 miliardi, che è atteso inneschino investimenti complessivi per €39,8 miliardi. In particolare, 56 progetti sono stati approvati nel settore infrastrutture e innovazione, mentre 65 accordi sono stati siglati tra il FEI e gli intermediari finanziari per un totale di €2.3 miliardi di finanziamenti alle PMI. Questi dovrebbero attivare circa €24 miliardi di investimenti in oltre 210 mila tra PMI e Mid-Cap.

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