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“Non tremate, all'economia ci pensiamo io e Padoan” - Libero

Libero - 07/11/2016

Francesco Rigatelli per Libero intervista Fabrizio Pagani
7 novembre 2016

Il tecnico del tecnico si chiama Fabrizio Pagani, ha 49 anni, è pisano come Enrico Letta, di cui è stato consigliere economico a Palazzo Chigi, e ha lavorato all'Ocse come il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, di cui ora è il capo della segreteria tecnica. Sua moglie, che è tedesca, e i loro due figli, vivono a Parigi. Lui, sommerso a Roma dai provvedimenti del governo, ci spiega a cosa sta lavorando.

Nella stanza dei bottoni si valuta mai un'uscita dall'euro?
«Non è realistica. Sarebbe la fine dell'euro e la rinuncia al progetto comune di uno dei paesi fondatori dell'Ue. Impossibile e immotivata: la finanza pubblica tiene, il deficit diminuisce, il debito inizia a scendere, la crescita non è eccitante ma positiva. E non ci sono premesse di un attacco all'euro che veda nell'Italia l'anello debole. Mollare sarebbe un disastro e una fatica inutile».

A proposito di attacco all'euro, come vi difendente dalla finanza?
«Al ministero abbiamo tutti gli strumenti sul mercato per capire i flussi di capitale, ma non amo le tesi di complotto. Certe volte ci sono singoli fondi che vendono allo scoperto...».

E quando Deutsche bank nel 2011 vendette in blocco titoli di stato italiani alla fine del governo Berlusconi?
«Allora facevo un altro lavoro».

Ma esclude il fine politico?
«Per quel che ne sappia lo escludo. Io credo ai fini finanziari in questi casi, il resto è, quello sì, speculazione».

Tornando all'euro, un'altra idea è la creazione di una seconda moneta per i paesi del sud Europa?
«È un'altra costruzione solo accademica. Il progetto comunitario è unitario e vive di alcuni paesi chiave per motivi economici e anche ideali».

Eppure qualcosa non va nel rapporto con l'Ue, come si può fare?
«Dobbiamo distinguere tra le costruzioni accademiche e il pragmatismo necessario. Non credo che nei prossimi mesi sia possibile rivedere i trattati europei. Ci sono le elezioni in Olanda, Francia e Germania. Né possiamo avere a breve la mutualizzazione del debito dei paesi europei. Ma ci sono altre conquiste possibili».

Per esempio?
«Si può rafforzare l'Ue in settori come l'immigrazione, la sicurezza interna ed esterna, e attivare politiche comuni sulla disoccupazione come proposto dal ministro Padoan».

Sembra che Padoan e ancor più Renzi abbiano deciso di sfidare l'Ue. Come mai?
«La politica italiana resta ispirata a due linee guide: il rispetto del Patto di stabilità, con la flessibilità che esso stesso prevede, e uno sforzo di bilancio espansivo».

Che intende?
«Che il governo sta riducendo le spese inutili e utilizzando i risultati per tagliare le tasse. Si tratta di piani pluriennali consistenti: nel 2014-2015 sul lavoro, gli 80 euro per i lavoratori e la ridefinizione dell'Irap per le imprese; nel 2016 sulle tasse di proprietà per privati e imprese agricole; nel 2017 il taglio dell'Ires per le imprese al 24 per cento, sotto la media europea. A qualcuno sembra che non cambi niente, ma a me e Padoan tutti questi numeri sono costati notti insonni».

L'ex premier Dini ha detto che fosse in Padoan si dimetterebbe per il modo in cui lo tratta Renzi.
«Padoan ha risposto che c'è grande collaborazione con Renzi. Aggiungerei: un'intesa più che quotidiana, ora per ora, in certi casi ore piccole».

Sempre per Dini, senza l'iniezione di liquidità della Bce di Draghi saremmo come agli ultimi giorni del governo Berlusconi.
«Un'analisi sbagliata. Riconsidererei gli interventi suddetti e poi basta parlare con gli investitori in Italia».

Dove vanno in particolare?
«Banche, società finanziarie, di revisione, di rating e studi legali ci contattano per trasferirsi a Milano dopo la Brexit. E c'è un'attrattiva delle province di Veneto, Toscana e Puglia».

Tornando ai provvedimenti, si rinvia sempre il taglio della spesa. Aumentate il debito e poi?

«Dall'anno prossimo diminuirà. Sul debito la manovra agisce nel lungo periodo. Al contempo serve una spinta espansiva adeguata. Il debito si batte solo tornando alla crescita».

Il commissario Ue all'economia, il socialista francese Pierre Moscovici, è più un alleato o un giudice di questa politica espansiva?
«Alleato non so, certo è un politico sofisticato che capisce la necessità di rilanciare gli investimenti. Il piano Juncker del resto serve proprio a questo».

E Padoan da vicino che tipo è?
«Equilibrato e saggio. Ritiene che fatte le analisi si debba decidere. Non rinvia. Un pregio per un politico».

In questo andrà d'accordo con Renzi...
«Esatto».


Lei lo chiama politico. C'è chi vede il ministro tecnico farsi politico e addirittura premier in caso di crisi successiva a un No al referendum. Che ne dice?
«No comment».

Ci rivela allora un suo consiglio che Padoan non ha seguito?
«Più di uno. E sarebbe strano il contrario: non è questione di idee, ma di sensibilità diverse da seguire. Lui come ministro ha più presente gli equilibri politici del governo».

E un consiglio di Padoan a Renzi che il premier non ha seguito?
«No comment».

Ultima domanda difficile: per lei che ha lavorato in entrambi i governi che differenza c'è tra la politica economica di Letta-Saccomanni e quella di Renzi-Padoan?
«Difficile fare paragoni, il primo è stato un governo più breve mentre questo è duraturo. I tempi inoltre sono più maturi, ora sentiamo maggiormente il vento in poppa e anche grazie all'azione dell'esecutivo possiamo affermare di essere usciti dalla crisi».

Lei rappresenta il governo nel consiglio d'amministrazione dell'Eni, la più grande azienda del Paese. Che senso strategico ha oggi questa partecipazione statale?
«È uno dei grandi patrimoni da valorizzare e proteggere. Bisogna capire che può essere il battistrada per una maggiore presenza italiana dove siamo meno forti, a partire dall'Africa».

Per Padoan lei si è occupato anche di privatizzazioni, c'è allo studio qualche altra mossa?
«Intanto non è banale avere fatto le Poste, che ha mutato pelle andando in Borsa, ed Enav sul controllo aereo, la sola società al mondo di questo tipo privatizzata. Ora si ragiona con i vertici di Ferrovie per una parte del gruppo, probabilmente l'alta velocità».

Veniamo a un problema annoso: la mancanza di politica industriale.


«Quella di tipo novecentesco basata su settori come l'acciaio, l'auto, la chimica, è sorpassata. Ora si pensa a una politica sui fattori, come lavoro e capitale. Così il Jobs act ha liberalizzato il mercato, si è premiato il salario di produttività, si sono diversificati i crediti per la crescita: da quelli bancari al mercato dei capitali, ai minibond, a credit fund e borsa. Infine, si è agito sugli investimenti, con il super ammortamento e gli sgravi su ricerca e sviluppo. Ma posso dirle una cosa?».

Prego.
«Quando sono arrivato sono rimasto sorpreso perché non esisteva uno strumento giuridico per proteggere brevetti e marchi. Ora c'è il patent box. Ma questo dimostra l'incuria in cui era stato lasciato il Paese».

A scanso di apparirle novecentesco, ma la politica industriale non è quella che sceglie su quali settori un Paese deve specializzarsi?
«Ha ragione, infatti si lancia un programma come quello del ministro Calenda. Che ci possano essere interventi specifici poi è naturale, ma la filosofia di fondo è quella che le ho detto».

Sul Jobs act, a parte il balletto dei numeri, sono rimaste altre tipologie di contratti in parallelo. Questo non ne limita l'efficacia?
«No, secondo i dati quasi tutti i nuovi contratti seguono il Jobs act».

Altro tema, le acquisizioni dall'estero non danno l'idea di un Paese in svendita?
«La mia visione è laica. Non conta il passaporto del capitale ma che il capitale ci sia, al di là di certi settori strategici per la sicurezza nazionale».

Questo va d'accordo con la sua idea sulla politica industriale...
«Le imprese italiane devono però investire all'estero. Purtroppo sono piccole e in settori poco visibili. La grande sfida della politica economica, più che industriale, è aiutarle a crescere e internazionalizzarsi. Oggi l'impresa italiana deve diventare globale».

Con la legge di bilancio volete attrarre non solo investimenti, ma investitori esteri. Come funziona?
«Detassiamo i ricercatori che tornano in Italia del 50 per cento per 5 anni e chiediamo ai ricchi che si trasferiscono 100 mila euro invece di dichiarare i redditi esteri, mentre per quelli italiani pagano normalmente. Questo per stimolare ricerca e investimenti».

Capitolo evasione fiscale?
«A una lotta forte uniamo un fisco collaborativo che fa accordi preventivi con le multinazionali».

Infine, come cambia il lavoro? Sempre meno, da casa, nei servizi?
«Sono d'accordo, soprattutto se guardo a mia moglie che lavora da Parigi, come da qualsiasi parte, per una compagnia americana di infrastrutture. Si stanno superando certe distinzioni tra lavoro autonomo e dipendente e tra professione e vita privata».