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Un'alleanza per la legalità. L'asse pubblico-privato contro i reati economici (R. Garofoli)

Repubblica/Affari & Finanza - 17/09/2018

Intervento di Roberto Garofoli, Presidente di sezione del Consiglio di Stato e Capo Gabinetto del Mef

II dibattito suscitato dalle drammatiche vicende di Genova dello scorso agosto ha confermato quanto sia riduttivo ragionare in termini di sola sostenibilità economica nella disciplina e nella gestione dell'attività d'impresa, e quanto decisivo sia, invece, valorizzare e rilanciare il paradigma della cosiddetta responsabilità sociale di impresa.

Pur nella consapevolezza della non sovrapponibilità concettuale e tecnica dei due profili, a quel paradigma ci si è in passato ispirati nell'introdurre discipline, talune trasversali altre settoriali, volte a promuovere il concorso dello stesso mondo imprenditoriale nel prevenire e contrastare il diffondersi degli illeciti aziendali.

È un approccio che ha dato risultati? E necessario un ripensamento o sono utili quanto meno interventi correttivi?

La diffusione della criminalità d'impresa e, in senso ancor più lato di condotte socialmente ed eticamente non corrette, genera effetti distorsivi, determinando costi rilevanti in termini di minor benessere collettivo oltre che sul versante economico. La lotta alla criminalità economica ha quindi effetti determinanti nel rafforzare non solo le potenzialità di crescita delle imprese, ma anche le possibilità di sviluppo sociale del Paese. Un contrasto efficace al fenomeno richiede interventi mirati, non solo in chiave repressiva ma preventiva, diretti a promuovere una cultura aziendale favorevole alla legalità e attenta all'impatto dell'attività d'impresa nel tessuto sociale. In linea con tale impostazione è la tendenza ad affiancare al modello repressivo tradizionale di sola punizione con finalità preventive - un sistema di prevenzione con eventuali conseguenze punitive, chiamando in causa lo stesso mondo imprenditoriale nell'approntare modelli organizzativi idonei a prevenire il verificarsi di illeciti. L'avvio di questa nuova prospettiva risale al d.lgs. n. 231 del 2001, con l'introduzione di una responsabilità autonoma e diretta in capo alle imprese per l'omessa adozione delle cautele organizzative idonee ad impedire la commissione di reati da parte degli amministratori o dei dipendenti.

L'approccio orientato alla valorizzazione della compliance si traduce in una forma di partecipazione democratica all'azione pubblica di contrasto alla criminalità d'impresa, una sorta di partnership pubblico-privato nella gestione del rischio di reato, affidata a uno strumento di autoregolamentazione dell'ente. La collaborazione non è una scelta rimessa alla libera iniziativa dell'impresa: l'adozione e l'efficiente attuazione dei modelli organizzativi di prevenzione è condizione necessaria per esonerare l'ente da responsabilità nell'ipotesi di reato commesso nel contesto aziendale (o attenuare le conseguenze sanzionatorie a suo carico se la stessa interviene post-delictum).

A 17 anni dall'avvio della politica di contrasto occorre interrogarsi sulla sua effettiva efficacia. Il d. lgs. 231 ha registrato una frequenza non elevata di applicazione in sede processuale. Nel dibattito maturato sulle possibili linee di riforma, si è in primo luogo fatta strada l'esigenza di scongiurare un approccio burocratico dell'impresa nell'elaborazione dei modelli organizzativi e una traduzione solo formale della disciplina legislativa in prassi aziendali non efficaci, minimizzando al contempo l'esposizione dell'ente ad una valutazione giudiziale di inidoneità dei modelli troppo influenzata dalla sola constatazione dell'avvenuta commissione del reato. È stata inoltre da più parti evidenziata la mancanza di una compiuta disciplina dei meccanismi di collaborazione volti a favorire l'emersione degli illeciti, circoscritta alla segnalazione interna all'azienda prevista dalla recente disciplina del whistleblowing. Nel panorama internazionale non mancano le spinte verso la valorizzazione di meccanismi di collaborazione anche di carattere negoziale. In Francia la recente Legge Sapin II, oltre a introdurre l'obbligatorietà dei compliance program per le società di grandi dimensioni, ha disciplinato un accordo in sede processuale in base al quale l'ente che accetta, se da un lato sfugge alla condanna per l'illecito a suo carico, è sottoposto a una serie di obblighi come realizzare uno stringente programma di prevenzione sotto il monitoraggio della neo-istituita Agenzia anti-corruzione.

Se quello francese non appare un modello replicabile, suggerisce una possibile linea di evoluzione del sistema di responsabilità degli enti, orientata al rafforzamento degli strumenti negoziali e dei meccanismi collaborativi. Tra le tante proposte di riforma si segnala - per l'importanza che assume, se adeguatamente costruita, nella prospettiva di valorizzare una effettiva collaborazione del mondo imprenditoriale nel contrasto al crimine di impresa - quella volta ad affiancare a meccanismi punitivi (per l'ipotesi di mancata adozione o non efficace attuazione dei modelli organizzativi), misure di tipo incentivante o premiale, collegate all'impegno profuso dall'impresa stessa nell'accertamento di reati commessi al suo interno.

La soluzione prospettata è quella di introdurre meccanismi che favoriscano l'auto-denuncia da parte dell'ente e la cooperazione con le autorità penali per l'emersione dei fatti illeciti. Certo, il riconoscimento normativo di tali condotte collaborative, con misure volte ad attenuare le conseguenze sanzionatone connesse al riscontro processuale degli illeciti, non deve indebolire l'efficacia del sistema di prevenzione: è stato proposto che la disclosure spontanea debba intervenire nella fase antecedente la contestazione dell'illecito a carico dell'ente. Il dibattito è da tempo in corso. La rilevanza sociale, e non solo tecnica ed economica, suggerisce che allo stesso sia attribuita la giusta considerazione.

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