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Lecture del ministro Tria alla LUISS: “La sfida della sostenibilità e la politica di bilancio”

Il testo della lecture tenuta dal ministro dell’Economia e delle Finanze in occasione del "Global Sustainability Forum 2019"

20/05/2019

La sfida della sostenibilità è anzitutto quella di trovarne una definizione soddisfacente in termini operativi da una prospettiva integrata di sistema sociale, ecologico ed economico.

Ad oggi sono state proposte varie definizioni e criteri di sostenibilità.

The Brutland’s (World) Commission on Environment and Development definisce nel 1987 come sostenibile “development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generation to meet their own needs”.

Si tratta di una definizione ancora incompleta e troppo vaga per essere operativa. Più recentemente (Weitzman 2016) è stata proposto di applicare il principio di “consumo sostenibile equivalente” intendendo che una data traiettoria di crescita è sostenibile se consente di mantenere un ipotetico livello consumo che produce una equivalente dinamica di benessere. Questo principio di equivalenza implica che si tenga conto in modo comprensivo di tutti i fattori che rendono possibile questa traiettoria. Ciò implica che il capitale che deve essere preso in considerazione per trasmetterlo alle future generazioni non è solo il capitale riproducibile utilizzato nei processi produttivi, attrezzature e infrastrutture, non solo il capitale naturale, ma anche il capitale umano, il capitale di conoscenza accumulato, il capitale sociale.

Queste specificazioni hanno importanti implicazioni di policy ma aprono anche, in via prioritaria, a due questioni fondamentali che devono essere chiaramente distinte.

La prima questione riguarda gli obiettivi dello sviluppo sostenibile; cioè "ciò che dovrebbe essere sostenuto" e "che tipo di sviluppo preferiamo". Si tratta di questioni normative che implicano giudizi di valore sugli obiettivi della società, sugli obiettivi sociali, economici ed ecologici e che hanno un più ampio respiro politico delle singole definizioni e scelte.

La seconda questione riguarda l'aspetto positivo dello sviluppo sostenibile; cioè, il problema di fattibilità di "ciò che può essere sostenuto" e "che tipo di sistema possiamo ottenere". Richiede di capire come i diversi sistemi interagiscono ed evolvono, e come potrebbero essere gestiti. Anche qui il concetto di sostenibilità non può essere scisso da una visione politica del futuro che si vuol realizzare e del presente che si vuol sostenere.

Sostenibilità, inoltre, è un termine che è stato largamente utilizzato per denotare i rischi di crisi creati da condizioni di fragilità economica e finanziaria, specialmente per elementi di vulnerabilità del sistema economico, quali l’alto debito pubblico e la bassa crescita economica. In questo, e a differenza della sostenibilità ecologica, la sostenibilità economica evoca più direttamente il concetto di vulnerabilità.

La vulnerabilità è stata definita come "... la capacità di essere feriti", mentre la resilienza può essere concepita come la capacità di rendere le ferite meno gravi e più inclini ad essere prontamente curate.

La vulnerabilità delle economie agli shock esterni è una condizione che riguarda l’esposizione e la capacità limitata di adattarsi ai cambiamenti indesiderati della congiuntura internazionale, delle condizioni di mercato e di altri fattori.

La resilienza dipende dalle capacità dei Paesi di adattarsi agli shock esterni, ad esempio riducendo le conseguenze dannose o sfruttando le opportunità benefiche. In generale, queste capacità dipendono da una qualche forma di capitale umano e/o non umano, come il risparmio, l'istruzione, le istituzioni e l'accesso alla tecnologia. Esse dipendono anche in modo critico dalla capacità delle famiglie e delle imprese di prendere decisioni e di rivederle in un contesto intertemporale e incerto.

Ci sono quindi due aspetti della sostenibilità, entrambi rilevanti dal punto di vista economico: uno di breve termine, che riguarda la gestione quotidiana dell’economia e la sua capacità di resistere agli shock esterni e ai continui venti di crisi, e uno di lungo termine, che invece concerne la realizzabilità di un progetto desiderabile di società.

Anche questo progetto naturalmente va costruito giorno per giorno, ma le minacce alla sua realizzazione non sono necessariamente le stesse di quelle che insidiano la stabilità del sistema economico nella sfida quotidiana della sopravvivenza nella economia globalizzata.

Benché l’attenzione dei media sia spesso concentrata sui rischi di breve termine quali il debito e lo spread, tuttavia, i due tipi di sostenibilità (di breve e di lungo termine) sono profondamente collegati. La sostenibilità macroeconomica infatti è un concetto usato per indicare un quadro macroeconomico stabile e favorevole alla crescita. Questo significa che l'inflazione è bassa e prevedibile, i tassi di interesse reali sono appropriati, la politica di bilancio è stabile, il tasso reale di cambio è competitivo e prevedibile e la bilancia dei pagamenti è in equilibrio.

Questa definizione è però limitativa e deve necessariamente includere anche il criterio che le variabili correlate siano favorevoli allo sviluppo economico.

La sempre più stretta interdipendenza dei diversi paesi nell’economia globale infatti fa sì che le condizioni di pura sostenibilità macroeconomica non siano sufficienti a rassicurare i mercati finanziari se non sono presenti degli elementi “soft” di sostenibilità, che includono la performance ambientale, sociale e di governance del Paese.

La sostenibilità delle politiche di bilancio pubblico dipende quindi sia da strumenti di controllo diretto, quali la spesa pubblica e la tassazione, sia da strumenti per cui il controllo diretto è meno efficace, quali il livello di efficienza dell’amministrazione pubblica, gli investimenti e le innovazioni.

Per questi ultimi, inoltre, che sono cruciali per la sostenibilità di lungo termine del Paese, le scelte volte ad assicurare la sostenibilità macroeconomica di breve periodo possono essere negative e, in ultima analisi, compromettere sia la sostenibilità nel breve che nel lungo termine.

Tornando a quanto detto prima, e alla pura definizione di sostenibilità come “sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità della generazione futura di soddisfare i propri bisogni”, la questione fondamentale che si pone è quindi come come conciliare il breve termine con il medio – lungo termine e con l’idea che il capitale che noi dobbiamo lasciare al futuro riguarda sia il capitale naturale, sia il capitale fisico, sia il capitale umano sia il capitale sociale. Ciò significa porsi il problema complesso della transizione.

Se ci poniamo da questo punto di vista appare evidente che la semplice affermazione che fare debito significa deteriorare i mezzi che noi lasciamo alle future generazioni è un’affermazione che di per sé appare di dubbio significato, se non si considera l’insieme dei mezzi che noi conserviamo o distruggiamo per soddisfare i bisogni futuri.

Si pensi ad esempio alle possibili perdite dovute a severe recessioni nello stock di capitale umano (hysteresi), dato che questa classe di capitale deve entrare, allo stesso modo del capitale naturale e del capitale riproducibile fisico, nella nozione comprensiva di capitale.

Se ci poniamo dal punto di vista della sostenibilità è chiaro che anche la sostenibilità connessa alla conservazione del capitale naturale e ambientale non può derivare semplicemente dal non uso ma da un suo diverso uso, e questo implica un grande ammontare di investimenti in innovazione e nuove tecnologie. Così come sono necessari, allo stesso fine, grandi investimenti in capitale umano, e ciò significa risorse per istruzione e salute, investimenti in capitale sociale e ciò significa investire in “fiducia” e quindi in un sistema di protezione e assicurazione collettiva verso i perdenti che consenta di non amplificare quella società della rabbia e del conflitto alimentata da chi vede sfaldarsi i legami sociali forti delle società locali, oggi messi in crisi dai processi di globalizzazione.

Queste osservazioni mi portano ad affrontare il secondo gruppo di considerazioni, riguardanti il problema del debito, del suo finanziamento e le sue relazioni con la crescita.

In particolare il tema della sostenibilità del debito è stato di recente ripreso anche sul piano teorico (vedi la AEA Presidential Lecture tenuta da Blanchard). Un poco forzando con la sintesi, la tesi in discussione deriva dalla nota equazione per la quale il rapporto debito/pil si riduce se, coeteris paribus, (cioè se il bilancio primario è in equilibrio), il tasso di crescita dell’economia è superiore al tasso di interesse medio sullo stock del debito, superiore cioè al tasso di crescita del debito. L’osservazione è che in una situazione in cui questa è la caratteristica dell’economia (e questa è stata la caratteristica prevalente delle economie avanzate in passato), vi può essere spazio per altro debito senza costi fiscali, cioè senza che sia necessario aspettarsi un futuro inasprimento fiscale. (L’analisi è più complessa e vi sono ulteriori affermazioni, e cioè che in assenza di costo fiscale, il costo di benessere dovuto ad una possibile riduzione dell’accumulazione di capitale privato come conseguenza dell’aumento del debito pubblico, può essere molto minore di quanto generalmente assunto).

Date queste condizioni, e queste condizioni sono oggi presenti nella gran parte del mondo avanzato, l’indebitamento, soprattutto per investimenti pubblici aggiuntivi sarebbe desiderabile. D’altra parte la situazione attuale è caratterizzata più da un eccesso di risparmio sugli investimenti che il contrario.

Dal punto di vista della sostenibilità ciò significa che l’argomento del peso che lasciamo alle future generazioni aumentando il debito di fatto scomparirebbe in presenza di queste condizioni macroeconomiche.

Questa provvisoria conclusione mi porta all’ultima parte delle mie considerazioni, relative al caso italiano ed europeo.

La domanda importante per noi italiani è la seguente: le osservazioni precedenti possono essere utilizzate per sostenere che in Italia non dobbiamo porci eccessivamente il problema del contenimento e della riduzione del debito? Io penso che la risposta non possa essere affermativa. Per la semplice ragione che la discussione sulla sostenibilità del debito è legata oggi in modo concreto, in Italia, alla disponibilità dei creditori a prestare ai debitori ad un tasso di interesse costante, anche quando le condizioni macroeconomiche sopra richiamate dovessero essere a favore di un finanziamento a debito degli investimenti.

In estrema sintesi si pone un problema di “fiducia” dei prestatori nel giudizio di sostenibilità del debito stesso.

Poiché il giudizio sulla sostenibilità dipende non solo dalla relazione attuale tra tasso di crescita e tasso di interesse, cioè dalla relazione oggi misurabile, (e questa relazione ci è oggi sfavorevole) ma dipende anche e soprattutto dalla relazione attesa tra le due variabili, il giudizio sulla sostenibilità riguarda la misura in cui l’evoluzione di queste variabili è endogena rispetto alla scelta sull’ indebitamento.

Su questo tema si confrontano due chiare posizioni. Quella che afferma che il tasso di crescita reagirebbe positivamente al maggiore indebitamento (soprattutto se a fini di investimento) e quindi le condizioni macroeconomiche per la sostenibilità dell’indebitamento si realizzerebbero ex post se non ancora esistenti, e chi sostiene che al contrario sarebbe il tasso di interesse sul debito a crescere fino a livelli insostenibili eliminando anche le condizioni macroeconomiche che lo consiglierebbero nella situazione attuale. Si tratta della vicenda dello spread.

Questa discussione ci porta anche alla radice del problema della applicabilità in Europa della golden rule.

La golden rule affronta il tema della sostenibilità del debito per investimenti (tema ancor più rilevante se si allarga alla considerazione del capitale umano e sociale che si può perdere in assenza di un finanziamento degli investimenti con indebitamento).

A me sembra tuttavia che la questione non sia risolvibile, almeno in Italia, a livello nazionale, per i motivi appena ricordati, ma vada affrontata a livello europeo nell’interesse complessivo dell’Europa. E la soluzione non è quella di mutare semplicemente le regole che vincolano i bilanci nazionali, ma quella di porre il problema di sostenibilità a livello europeo.

A livello europeo i tassi di interesse sono molto al disotto del tasso di crescita anche in una fase di rallentamento come quella attuale e al tempo stesso il livello degli investimenti pubblici e privati è molto al di sotto del livello necessario ad assicurare un ruolo all’Europa nella competizione globale, e un futuro dignitoso ai suoi cittadini che in quasi tutti i paesi mostrano una crescente insoddisfazione tanto che ormai nei consessi multilaterali si parla apertamente di società della rabbia.

Poiché quindi vi sono le condizioni macroeconomiche per investire anche a debito, ed è non prevedibile un sostanziale mutamento di queste condizioni in risposta al tentativo di sfruttarle, è desiderabile farlo per non consegnare alle future generazioni meno mezzi per soddisfare i loro bisogni, cioè meno capitale naturale, fisico, umano e sociale.

D’altra parte adottare a livello europeo una forma di “indebitamento virtuoso” per finanziare programmi di investimento, anche in capitale umano, porterebbe ad affrontare una questione importante come quella della creazione di safe assets necessari alla stabilità finanziaria e al sistema bancario nel momento in cui si discute intorno al rischio dei debiti sovrani che fino ad oggi sono stati il “safe asset “ per eccellenza.

Oggi in Europa si discute intorno alla costituzione di un budget dell’eurozona, del suo utilizzo (finalità di convergenza, competitività o anche stabilizzazione) e del suo finanziamento, e tuttavia a causa del sovranismo nordico, su questo punto più che misurarsi le differenti idee e visioni si sta misurando essenzialmente la strutturale paralisi decisionale europea.

Una seconda considerazione. Non dobbiamo dimenticare che esiste un secondo modo di finanziare un deficit ed è il finanziamento in moneta. Questa modalità non è a disposizione di un singolo paese ma, almeno sul piano teorico, lo è per l’Europa anche se ciò richiederebbe una non prevedibile revisione dello statuto della BCE.

Purtuttavia è anche il momento di affrontare il taboo della monetizzazione e recuperare a pieno gli strumenti di politica macroeconomica anche per assicurare il coordinamento non risolto tra politica monetaria e di bilancio. D’altra parte l’enorme massa di liquidità immessa con la politica del Quantitative easing è stata fondamentale per salvare l’euro ma non ha ancora portato il tasso d’inflazione ai livelli obiettivo e se una parte di questa creazione di moneta fosse stata legata al finanziamento diretto a programmi europei di investimento secondo un criterio di proporzionalità tra i vari paesi avremmo forse avuto un effetto sulla convergenza interna e sulla competitività esterna significativa. In altri termini, la politica monetaria non determina una strategia di crescita da sola, tantomeno una crescita sostenibile, ma ne può solo facilitare l’adozione.

(spero che in Italia e in Europa anche un ministro conservi il diritto di confrontare idee senza creare allarmi di qualche sorta)

Ma qual è oggi il dibattito europeo sulla politica di bilancio. La cosiddetta austerità non viene invocata. Anche se rimane fermo l’obiettivo complessivo della riduzione del rapporto debito/pil, e questo sta avvenendo a livello europeo aggregato. Fino almeno all’autunno scorso la tesi più seguita era quella secondo la quale fino a quando il tasso di crescita è positivo, seppur molto basso, è bene ricostituire i buffer di bilancio per poter affrontare crisi potenziali. Si tratta della definizione più aggiornata di consolidamento fiscale.

Oggi, di fronte al rallentamento dell’economia, che era stato ampiamente sottovalutato, la posizione difesa dalla Commissione, è quella di invitare ad una politica fiscale espansiva i paesi con spazio fiscale. Cosa significhi spazio fiscale è dibattuto nella teoria, e non è certo un concetto chiaro, ma l’interpretazione corrente in Europa è quella secondo la quale lo spazio fiscale è determinato dal grado di compliance con le regole di bilancio europee e soprattutto da un livello di debito che non crea problemi di fiducia ai sottoscrittori anche in caso di un suo aumento.

Ciò sembra ragionevole ma si trascura il fatto che in tal modo dovrebbero adottare questa politica i paesi che non ne sentono il bisogno e senza affermare un principio chiaro di coordinamento delle politiche fiscali, difficilmente vi sarà mai coerenza nella politica di bilancio a livello europeo.

Tuttavia, l’invito a perseguire una riduzione del rapporto debito/pil come strategia di crescita non è defunta con l’austerità, e non lo è istituzionalmente, perché è la dottrina sulla quale è stato disegnato il Fiscal compact, regola sulla quale sarebbe necessaria un’analisi seria dei risultati, come del resto previsto dalla regola stessa prima di proporre una sua definitiva istituzionalizzazione.

Vinse infatti la tesi contraria a quella di coloro che avvertivano (De Long), quando fu approvato il Fiscal compact, che il consolidamento fiscale avrebbe trasformato la disoccupazione ciclica in disoccupazione strutturale e quindi avrebbe ridotto la futura capacità produttiva dell’economia e prodotto i fenomeni di isteresi di cui in Italia soffriamo pesantemente, soprattutto se consideriamo che il tasso di disoccupazione ufficiale risponde a regole statistiche che non guarda né alla qualità né alla quantità del lavoro dei registrati come occupati.

Si tratta quindi di una tipica situazione che può essere definita contraria all’idea di sostenibilità.

Forse un caveat a questo punto è indispensabile, non si assolve certo in questo modo un non virtuoso utilizzo della spesa pubblica diretta più al sostegno dei consumi che agli investimenti in capitale materiale e immateriale, in capitale umano e in capitale sociale per una società sostenibile.

E vorrei concludere richiamando quello che penso riguardo alle prospettive dell’Italia. Le nostre prospettive dipendono sia da quanto accadrà in Europa in termini di correzione delle politiche economiche sia da quel che faremo noi. Il dato di fatto è che siamo oggi tra i pochi paesi europei a non avere le condizioni macroeconomiche secondo le quali il ricorso al deficit, cioè all’indebitamento, non contrasterebbe di per sé con l’obiettivo di riduzione del rapporto debito/pil (relazione attuale tra tasso di interesse medio sul debito e tasso di crescita non è virtuoso e ciò richiede un alto surplus primario).

Se vi sarà una ripresa forte in Europa e nel mondo, noi saremo trascinati in alto e quindi possiamo ripristinare le condizioni per una diminuzione del rapporto debito/pil, e noi prevediamo che ciò possa accadere.

D’altra parte programmiamo con il DEF un percorso non troppo rapido verso il pareggio di bilancio per i prossimi anni, perché sarebbe dannoso per la nostra economia e non ne abbiamo neppure bisogno se saremo capaci di ripristinare quello spazio fiscale che non è dato dalle regole europee ma dalla fiducia, cioè dalla disponibilità dell’obbligazionista a sottoscrivere il debito pubblico.

Questo spazio fiscale dipenderà essenzialmente dal modo in cui utilizzeremo la spesa pubblica e dalla rapidità con la quale saremo in grado di mutarne la composizione in modo virtuoso a favore degli investimenti. Sono convinto che se si andrà in questa direzione lo spazio fiscale può aumentare e non penso che esso sia legato indissolubilmente al mito del pareggio di bilancio, (vorrei d’altra parte ricordare che il nostro bilancio primario non è in pareggio ma in surplus).

Nel dire questo mi sento in colpa e chiedo perdono a colui al quale è intitolata la scrivania che oggi temporaneamente utilizzo: Quintino Sella.

 

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