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Padoan ci spiega perché l'Italia ha usato aiuti di Stato sulle banche venete

Il Foglio - 27/06/2017

Più o meno un anno fa, di questi tempi, il Financial Times descriveva il sistema bancario con toni drammatici, segnalando in particolare i casi di otto banche che minacciavano di mettere in crisi l’intera Eurozona. A distanza di un anno possiamo dire che la situazione, magari descritta con un eccesso di allarmismo, ha subito una evoluzione positiva. Quattro di quei casi erano costituiti dalle banche regionali poste in risoluzione a fine 2015, ora assorbite da Ubi e Bper. C’era poi Unicredit, che ha realizzato un importante aumento di capitale. Per Monte dei Paschi il fabbisogno di capitale ulteriore si rivelava necessario soltanto nello scenario ipotetico di una grave crisi economica, e quindi il Governo è stato autorizzato a procedere con un aumento di capitale precauzionale. Questa strada, dell’aumento di capitale precauzionale, ci è stata preclusa per Veneto Banca e per Banca Popolare di Vicenza perché le condizioni finanziarie di queste due banche rendevano molto incerti gli esiti di un piano di ristrutturazione e improbabile il loro ritorno alla redditività. Per questi motivi la Banca Centrale Europea venerdì scorso ha dichiarato che le due banche dovevano essere considerate in condizione di fallimento accertato o molto probabile, e ha rimesso al Comitato unico di risoluzione (SRB) la decisione sul loro destino. Il Comitato ha riscontrato che due delle tre condizioni per decretare una risoluzione venivano soddisfatte, ma non la terza: secondo il Comitato le due banche non costituivano un pericolo per la stabilità finanziara dell’eurozona e pertanto andavano liquidate secondo le procedure italiane.

E arriviamo a domenica scorsa. Il Governo ha avviato le due banche alla liquidazione. Ma una liquidazione pura e semplice avrebbe comportato una crisi drammatica per un territorio che sta trainando l’Italia nella ripresa economica, dato che le due banche avevano tra i loro clienti 200mila imprese. Avrebbe creato disagi tra i correntisti, i depositanti e i risparmiatori che hanno investito in obbligazioni di quelle banche. Avrebbe probabilmente costretto l’intero sistema bancario italiano a sobbarcarsi il costo della tutela obbligatoria dei depositanti, con ripercussioni sul grado di patrimonializzazione di molte banche, e creato una grave incertezza tra i risparmiatori tutti.

Per questa ragione abbiamo deciso che la liquidazione andava assistita da aiuti di Stato. Che – contrariamente a quanto spesso, erroneamente, si sostiene – non sono vietati in Europa, purché vengano erogati rispettando regole precise. Come abbiamo fatto noi, dato che la Commissione ha riconosciuto la correttezza dell’intervento pubblico.

Gli aiuti di Stato hanno reso possibile l’acquisto da parte di Banca Intesa di un complesso aziendale che salva migliaia di posti di lavoro, garantisce continuità al credito per le imprese e gli artigiani, e previene disagi alle famiglie e ai risparmiatori (tra gli onere acquisiti da Banca Intesa ci sono anche le obbligazioni ordinarie, che quindi verranno regolarmente rimborsate alla naturale scadenza). E le modalità dell’operazione consentiranno nel corso dei prossimi anni di recuperare questo aiuto (che ammonta a 5,2 miliardi di euro, di cui 400 milioni in forma di garanzie su attività che presentano diversi livelli di rischio). In sintesi: non abbiamo salvato due banche che non stavano in piedi. Abbiamo invece liquidato le banche e salvato lavoratori, risparmiatori e imprese. Cioè l’economia del territorio.

Anche in questo caso, come nelle precedenti crisi, abbiamo utilizzato gli strumenti giuridici più adatti, confrontandoci con vincoli spesso complessi, dialogando costruttivamente con le istituzioni dell’Unione, e facendo i conti con risorse spesso limitate. In questo caso Banca Intesa, una banca ben gestita e fortemente patrimonializzata, è stata una risorsa per il Paese.

Abbiamo violato le regole e ucciso l’unione bancaria? Mai, lo dicono le stesse autorità europee. Piuttosto ancora una volta constatiamo che l’unione bancaria non è ancora completata dal necessario schema di assicurazione dei depositi. Ci siamo sottomessi, senza battere i pugni sul tavolo, alla volontà delle istituzioni comunitarie? Che i critici si mettano d’accordo tra loro: abbiamo ucciso l’unione bancaria o ne siamo succubi? Leggendo i commenti si intuisce che qualcuno vorrebbe finalmente far fallire una banca in crisi giusto per vedere che effetto fa, laddove altri vorrebbero che il Governo nazionalizzasse gli istituti problematici. Mi pare che nessuna delle due posizioni sia razionale. La prima perché sarebbe da scellerati rischiare di innescare una crisi finanziaria mentre finalmente l’economia riprende a un ritmo dignitoso, per quanto ancora insoddisfacente. La seconda perché il denaro dei contribuenti non va usato per salvare banche bensì per produrre servizi pubblici e beni comuni.

Gli aiuti di Stato, laddove sono stati impiegati, dovrebbero rientrare nelle casse dello Stato. Alcuni casi internazionali e quello italiano dei Monti bond ci dicono che è possibile.

Pier Carlo Padoan

State aid is the best way to rescue Veneto banks (english version)

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