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Intervista del ministro Padoan al Corriere della Sera

Corriere della Sera - 29/11/2015

di Lorenzo Salvia

Ministro Pier Carlo Padoan, la paura del terrorismo avrà effetti anche sull’economia? Ci dobbiamo aspettare una ripresa più debole del previsto?
«La fiducia delle famiglie e delle imprese è un elemento essenziale per l’andamento dell’economia. Ed è molto importante, come ci ha appena detto l’Istat, che questo dato sia in crescita».

Quel dato, però, era stato rilevato prima degli attentati di Parigi. Oggi sarebbe ben diverso, non crede?
«Certo, il clima seguito ai terribili fatti di Parigi è negativo e questo potrà avere effetti sulla ripresa. Ma gli italiani hanno la corretta percezione che stiamo uscendo dalla crisi. E questo conta molto, sia per la fiducia sia per l’economia».

L’obiettivo per il 2015 resta una crescita dello 0,9% del Pil, il prodotto interno lordo?
«Non è un obiettivo, è una previsione. E quando si fa una previsione c’è sempre il rischio di doverla rivedere al rialzo o al ribasso. Non dimentichiamoci che influisce anche un rallentamento delle economie di altri Paesi, cominciato ben prima degli attentati».

Quindi la crescita dello 0,9%, indicata dal governo nel Def, non ci sarà?
«Non ho detto questo. Degli effetti sono possibili ma al momento non abbiamo elementi concreti che ci inducano a rivedere quella cifra. E poi bisogna tener conto anche delle misure di reazione decise dal governo, con i 2 miliardi sugli interventi per la sicurezza e la cultura».

Buona parte della ripresa di quest’estate era stata trainata dal turismo. Difficile sperare che in quel settore non ci siano conseguenze.
«Non è detto. Sta cominciando la stagione sciistica, e le previsioni mi sembrano ottime».

A Roma sta per cominciare il Giubileo. Turisti non ce ne sono, i ristoranti sono vuoti.
«Staremo a vedere».

Ma lei, personalmente, ha paura che accada qualcosa, ha cambiato abitudini?
«Le mie abitudini sono cambiate, molto cambiate, da quando sono diventato ministro. Ma le voglio dire una cosa: a Parigi ho vissuto per sette anni, quando lavoravo all’Ocse. Le immagini che ho visto alla tv mi hanno colpito parecchio, perché quelle strade le conosco bene. Se abitassi ancora a Parigi non cambierei il mio stile di vita nemmeno di una virgola, perché quello sarebbe il primo segno di cedimento al terrorismo».

E in Italia, a Roma?
«Tanto meno».

Lei citava prima i 2 miliardi per sicurezza e la cultura. In realtà l’impegno di quelle risorse è condizionato al via libera dell’Unione europea sulla famosa flessibilità. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, dice che dall’Italia arrivano «troppe richieste di flessibilità». Non proprio un bel segnale.
«Noi non chiediamo nulla che non sia già previsto dalle regole sulla flessibilità che parlano di investimenti e di circostanze eccezionali, come i migranti e il terrorismo. È vero che sulle clausole di flessibilità l’Italia ha chiesto più degli altri Paesi. Non perché siamo indisciplinati ma perché gli altri Paesi non hanno le stesse condizioni di eligibilità, cioè di accesso, per queste clausole. Sono cose che lo stesso Dijsselbloem conosce bene: erano scritte nello statement proprio dell’Eurogruppo, di cui è presidente».

Ma cosa succederà se Bruxelles dovesse dire no?
«Ci adegueremmo alle regole, come abbiamo sempre fatto».

Nessuno sfondamento del tetto del 3% sul deficit/Pil?
«No, il deficit continuerà a scendere e da qui a primavera l’Italia dimostrerà che ci sono tutti i requisiti per il via libera. Non ci sarà nessuna procedura d’infrazione, non siamo mica andati allo sbaraglio».

Bad bank, e il decreto di domenica scorsa per salvare le quattro banche vicine al fallimento per i crediti in sofferenza, cioè difficili da riscuotere. Gli istituti riaprono ma azionisti e obbligazionisti hanno perso tutto. Possono sperare in qualcosa?
«Abbiamo anticipato le procedure di risoluzione bancaria che saranno introdotte dal primo gennaio. In questo modo è stato possibile proteggere chi aveva depositato i soldi presso quei quattro istituti».

Resta il fatto che la Germania ha usato direttamente una grande quantità di denaro pubblico per salvare le sue banche senza incorrere nell’accusa di aiuti di Stato.
«Sì, 247 miliardi di euro. Ma l’ha fatto quando questo era possibile, prima del 2013. Quando questo governo ha cercato di rafforzare il regime di protezione del sistema bancario le regole non lo consentivano più».

Considerando tutte le banche le sofferenze sfiorano i 200 miliardi. Ci sarà una o più bad bank per tutto il sistema?
«Qualcosa si sta già muovendo. Le grandi banche hanno avviato i loro meccanismi di cessione delle sofferenze ai fondi interessati. Abbiamo accelerato i tempi per la soluzione dei crediti e messo fine al problema dei crediti d’imposta nei confronti della pubblica amministrazione. Quello che manca è un’eventuale garanzia per agevolare lo scambio sul mercato dei cosiddetti crediti non performanti».

Interverrà la Cassa depositi e prestiti ed è in arrivo un decreto entro dicembre?
«Ci sono varie ipotesi. Ma non decideremo entro la fine dell’anno: prima c’è da guidare in porto la legge di Stabilità».

Ecco, uno dei nodi ancora da sciogliere è il piano per il Sud. Ci sarà? E che misure prevede?
«Ci sarà e sul tavolo ci sono tre ipotesi. Il credito d’imposta per gli investimenti che ha il vantaggio di essere automatico, cioè non ha bisogno di essere notificato a Bruxelles. L’estensione dello sconto sui contributi per il lavoro, che invece a Bruxelles va notificato e questo potrebbe allungare i tempi. E poi il super ammortamento, cioè lo sconto fiscale per chi investe nella propria azienda, che al Sud potrebbe essere ancora più forte».

Preferisce la prima ipotesi?
«Non esiste la misura ideale. Tutte hanno vantaggi e svantaggi. L’importante è che producano effetti strutturali».

E le pensioni? Renzi ha detto che l’anno prossimo si tornerà a parlare di flessibilità. Lei è favorevole o contrario al fatto che un lavoratore vada in pensione prima accettando un assegno più basso?
«Il nostro sistema pensionistico è molto solido. Si può migliorare e io sono aperto a ogni discussione. Ma stiamo attenti a non indebolirlo anche perché il nostro debito pubblico, come ci ricordano ogni cinque minuti, è molto elevato, anche se comincia a scendere dal 2016».

Per diminuirlo siete pronti anche alla privatizzazione delle Ferrovie. Quanto contate di incassare?
«Impossibile dirlo oggi. Ma, oltre a quelli sul debito pubblico, ci sono almeno altri due benefici che verranno dall’operazione: esporre il management alle pressioni della concorrenza con vantaggi per gli utilizzatori e ridurre i trasferimenti da parte dello Stato perché l’azienda potrà finanziarsi sul mercato».

La rete verrà scorporata?
«La proprietà delle rete resterà pubblica, su questo c’è totale accordo. Altra cosa è la gestione della rete: ci stiamo ancora ragionando. Ma in ogni caso è chiaro che sulla rete ci deve essere competizione».

Ha fatto discutere la frase del suo collega Poletti: l’orario di lavoro è un attrezzo vecchio. Lei è d’accordo?
«Detto così può sembrare fuori luogo. Ma leggendo tutta la frase, e conoscendo Giuliano, sono d’accordo con lui. L’orario di lavoro rimane una variabile importante ma non è più l’unica, nemmeno per un Paese manifatturiero come il nostro, dove però continua a crescere l’importanza dei servizi e quella che chiamiamo l’economia della conoscenza. Introdurre strumenti di misurazione della produttività non serve a punire il lavoratore. Al contrario, serve a trasformare la produttività in qualcosa che finisce nelle tasche del lavoratore».

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